Autore: Lucia Gangale

Magia e bisogni

ADRIANA PEDICINI

Magia e tradizione

Nella nostra società si possono individuare varie categorie di sopravvivenza che legano indissolubilmente l’uomo al suo passato il quale di volta in volta si ripropone e ogni volta con maggiore suggestione. Tra esse un posto rilevante occupa la magia.

Certamente la magia si può definire la forma originaria del pensiero umano. Essa sarebbe esistita un tempo allo stato puro e l’uomo avrebbe pensato in origine solo in termini magici. La predominanza dei riti magici nei culti primitivi e nel folklore costituisce, si pensa, una prova importante a favore di tale ipotesi.

L’uomo primitivo infatti avvertiva il bisogno di dominare le forze della natura e della vita in virtù di particolari poteri che prescindevano dal riconoscimento e dall’implorazione a un Essere superiore.

Di qui la messa in pratica di superstizioni e credenze né religiose, né scientifiche, cosa che sussiste nella società attuale sotto le forme dello spiritismo e dell’occultismo.

Due sono le forme fondamentali di magia che muovono da due principi diversi:

1) il simile agisce sul simile, magia imitativa dunque o simbolica

2) la parte agisce sul tutto.

Tuttavia la magia contiene dappertutto gli stessi elementi essenziali, quindi è identica dappertutto.

Non è utile procedere secondo l’analisi, anche se molto esauriente, di un numero pur considerevole di cerimonie magiche.

La magia è infatti debolmente istituzionalizzata e si presenta come un insieme di azioni e credenze mal definito anche per chi la pratica o ci crede.

Grande importanza comunque ha la tradizione.

Infatti i riti magici e l’intera magia sono fatti di tradizioni. Atti che non si ripetono non sono magici. Atti alla cui efficacia non crede un intero gruppo non sono magici. La forma dei riti è trasmissibile ed è avvalorata dall’opinione comune.

Donde consegue che atti strettamente individuali, come le pratiche superstiziose particolari dei giocatori prima di un evento sportivo, non possono essere chiamati magici.

Esistono al contrario altri riti che sono regolarmente ritenuti magici come i malefici. Essi sono costantemente qualificati in tal modo dal diritto e dalla religione. Illeciti, sono espressamente puniti e proibiti.

A questo punto è evidente che c’è antagonismo tra rito magico e rito religioso.

Innanzitutto riti magici e riti religiosi hanno agenti diversi. Ma ci sono molti altri elementi distintivi: la scelta dei luoghi ove deve svolgersi la cerimonia magica. Questa non si attua nel tempio o sull’altare domestico; ordinariamente si svolge nei boschi, lontano dalle abitazioni, durante la notte o nell’ombra. Diversi sono anche i mezzi utilizzati e sentimenti che suscitano.

Sicuramente la magia determina un fortissimo condizionamento su menti deboli e su persone di scarsa cultura, di scarsa “fortuna” o pressate da eventi spiacevoli.

Vi sono intere categorie sociali che, pur non appartenendo apertamente alle tipologie precedentemente indicate, in realtà possono essere qualificati personaggi la cui dimensione esistenziale assolutamente esteriore e legata a fattori che essi stessi sentono labili e precari cercano il consolidamento di se stessi al di fuori di sé, in ambiti ritenuti capaci di suggestionare la soddisfazione dei bisogni.

Già nell’antica Roma tuttavia il Collegio romano dei Pontefici osteggiava il ricorso a pratiche magiche che non avessero come punto di riferimento la divinità. Questa era invocata per ottenere la soddisfazione di un voto diretto non al vantaggio di una sola persona, ma al bene della comunità: scampo da pericoli e malattie, incremento del raccolto e del bestiame, vittoria sul nemico erano i desideri più ricorrenti. Per il raggiungimento di essi si servivano di un armamentario di gesti e di formule di tipo magico basato sull’elementare sofisma “post hoc, ergo propter hoc”, e sull’innato senso di un’affinità che si ritiene colleghi oggetti simili o aventi relazioni tra di loro come parte di un tutto.

La lustratio agri

Ad esempio la cerimonia della lustratio agri, rito diffusissimo a Roma, consisteva nella purificazione apotropaica dei campi al fine di liberarli da potenziali pericoli come aridità e malattia. Forse il primo a utilizzare tale rito fu Servio Tullio il quale secondo la tradizione stabilì per primo la consuetudine di procedere al lustrum del census (di qui la cadenza quinquennale del lustrum).

Non era questa però l’unica applicazione di tale pratica cultuale. Oltre al rituale della lustratio aquae si sa, ad esempio, che nel campo Marzio, animali sacrificali venivano condotti intorno all’esercito in armi o al popolo in assemblea in funzione di purificazione apotropaica. Questo rituale, veniva chiamato lustrum da cui la forma verbale lustrare impiegata anche da Virgilio. 

Leggiamo in Catone, II sec.a.Ch. (De agricoltura cap. 141,1-3)

“Bisogna purificare il podere in questo modo: comanda che le tre vittime, porco, agnello e vitello, siano condotte in giro intorno al campo pronunciando queste parole:” Col favore degli dei e perché tutto mi vada bene io ti ordino, o Manio, che queste tre vittime siano condotte in giro per il fondo, il podere, la terra mia, o solo per quella parte che tu giudichi debba essere purificata”.

“Invocate prima Giano e Giove, e dopo aver bevuto direte così: Oh padre Marte, ti prego e ti imploro di volere essere propizio a me, e alla mia famiglia: per questo motivo quindi ho disposto che si facesse, attorno al mio campo, attorno alla mia terra  ed attorno al mio fondo il sacrificio di un porco, di una pecora e di un toro: affinché tu impedisca, tu difenda ed allontani le malattie curabili ed incurabili, la sterilità e le devastazioni del suolo, le calamità e le intemperie, e affinché tu aumentassi  e concedessi di prosperare alle messi, al frumento, alle vigne ed ai virgulti; salvassi e proteggessi i pastori e il bestiame, e concedessi buona salute e forza a me, alla mia casa ed alla mia famiglia; quindi è necessario purificare queste stesse cose, il fondo la terra e il mio campo, rendendo sacrificio così come dissi: sii onorato dal sacrificio di questi suovitaurili lattanti”.

Cato de agri c. 141: [1] Agrum lustrare sic oportet: impera suovitaurilia circumagi: «Cum divis volentibus quodque bene eveniat,/ mando tibi, Mani,/ uti illace suovitaurilia/ fundum agrum terramque meam,/ quota ex parte sive circumagi sive circumferenda censeas,/ uti cures lustrare». [2] Ianum Iovemque vino praefamino, sic dicito:/ «Mars pater,/ te precor quaesoque/ uti sies/ volens propitius/ mihi domo familiaeque nostrae:/ quoius rei ergo/ agrum terram fundumque meum/ suovitaurilia circumagi iussi;/ uti tu/ morbos visos invisosque,/ viduertatem vastitudinemque,/ calamitates intemperiasque/ prohibessis defendas averruncesque;/ utique tu/ fruges frumenta,/ vineta virgultaque / grandire dueneque evenire siris;/ [3] pastores pecuaque/ salva servassis/ duisque duonam salutem valetudinemque/ mihi domo familiaeque nostrae;/ harunce rerum ergo/ fundi terrae agrique mei lustrandi/ lustrique faciendi/ ergo,/ sicuti dixi/ macte hisce suovitaurilibus lactentibus immolandis esto;/ Mars pater,/ eiusdem rei ergo/ macte hisce suovitaurilibus lactentibus esto».  La formula ‘fundum agrum terramque meam’

Cominciamo dalla seconda. Nel lungo testo della precatio catoniana questa ritorna tre volte: in 141. 1, 6 (fundum agrum terramque meam); in 141. 2, 8 (agrum terram fundumque meum) e in 141. 3, 6 (fundi terrae agrique mei lustrandi).

È noto agli studiosi che anche in altre antiche preghiere si trovano spesso ripetizioni triple in funzione enfatica come ad esempio nel caso di precor veneror veniamque peto, o di metum formitudinem obliuionem, ovvero di fuga formidine terrore. Si può fare l’esempio del carmen di evocatio di Cartagine e lo stesso Gellio dice che Catone usava impiegare tre vocaboli dallo stesso significato per dare l’idea di una grande prosperità: Gell. 13. 25. 13: Item M. Cato in orationis principio, quam dixit in senatu pro Rodiensibus, cum vellet res nimis prosperas dicere, tribus vocabulis idem sententibus dixit.

Non sembra però sia questo il caso.

Ager, fundus e terra

Nel lessico dei giuristi dell’età classica sappiamo che ager, fundus e terra avevano dei significati ben precisi e diversi.

In un frammento tratto dal 17 libro ad edictum di Ulpiano leggiamo ad esempio che (D. 50. 16. 27): Ager est locus, qui sine villa est. Ancora, in D. 50. 16. 60 (lib. 69 ad edictum), leggiamo che per i più: Locus est non fundus, sed portio aliqua fundi: ‘fundus’ autem integrum aliquid est. et plerumque sine villa ‘locum’ accipimus. Mentre il giurista dell’età dei Severi dimostra di avere un’idea diversa: ceterum adeo opinio nostra et constitutio locum a fundo separat, ut et modicus locus possit fundus dici, si fundi animo eum habuimus. non etiam magnitudo locum a fundo separat, sed nostra affectio.

Attraverso Ulpiano risaliamo anche a Labeone dal quale deduciamo che il termine locus si applicava di regola ai terreni rustici (anche se poteva essere usato per indicare i praedia urbana) e che la nozione di fundus veniva assimilata alla moderna nozione di ‘particella’ (sed fundus quidem suos habet fines). Il locus, inoltre, come espressione di un possesso immobiliare, sembra che per Labeone riguardasse in genere estensioni di terreno senza confini (locus vero latere potest, quatenus determinetur et definiatur). Di qui l’espressione locupletes ampiamente usata nelle fonti della tarda repubblica/età augustea.

Il quadro si chiude con Florentino il quale definisce il fundus come un’ager su cui c’era anche una costruzione. Mentre il locus, è considerato un terreno senza costruzione che si definiva ‘area’ in città e ager nelle campagne:

D. 50. 16. 211 (Florent. 8 inst.): ‘Fundi’ appellatione omne aedificium et omnis ager continetur. sed in usu urbana aedificia ‘aedes’, rustica ‘villae’ dicuntur. locus vero sine aedificio in urbe ‘area’, rure autem ‘ager’ appellatur. idemque ager cum aedificio ‘fundus’ dicitur.

Come si vede, nella tradizione giuridica romana (a partire da Labeone), i vocaboli ager e fundus presentano dei significati affatto diversi. Inoltre, si può notare che nella costruzione dogmatica dei giuristi classici, mentre il concetto di terra tende a scomparire, quello di locus sembra assumere un ruolo sempre più centrale.

Quest’ultima circostanza forse dipende dal fatto che il legislatore del 111 a. C. per indicare i possedimenti di terra in Italia (ma anche in Africa e Grecia) scelse di adoperare insieme a quello di ager anche i concetti di locus e di aedificium.

La lustratio agri però appartiene all’epoca di Catone ed è un testo che come abbiamo visto si proietta nel passato. Quindi il principale referente per noi non può essere che Varrone, il quale, fu allievo di Elio Stilone. Esperto, come è noto, anche di diritto augurale e autore di quegli Aeliana studia che rappresentano uno dei modi attraverso i quali l’antico sapere italico (etrusco?) si trasmise nella scienza dei giuristi dell’ultimo secolo della repubblica.

Poiché è molto probabile che Stilone abbia scritto anche un commento alle XII Tavole di poco successivo ai Tripertita, è altrettanto possibile che le definizioni di Varrone esprimano dei concetti che risalgono almeno all’epoca di Sesto Elio. Aggiungerei che l’assenza del termine locus nel lessico della lustratio forse è indice del fatto che la redazione del testo della formula sia anteriore all’epoca dell’affermazione della villa in Italia.

Ed allora, in Varrone (l. L. 7. 2. 18) leggiamo che: ‘ager non est terra’ perché il concetto di ager era un concetto tecnico che derivava dal diritto augurale (Varro l. L. 5. 5. 33). Anche il concetto di terra, come dice Stilone, era presente negli scritti degli àuguri, ma in un significato più generico: Varro l. L. 5. 4. 21: Terra dicta ab eo, ut Aelius scribit, quod teritur. Itaque tera in augurum libris scripta cum R uno. A proposito dell’ager invece leggiamo: l. L. 5. 6. 34: Ager dictus in quam terram quid agebant, et unde quid agebant fructus causa. Ed anche il fundus è descritto in Varro l. L. 5. 6. 37 già come una porzione di terreno produttiva di frutti, sia come un terreno adibito al pascolo (ager quod videbatur pecudum ac pecuniae esse fundamentum), il fundus sembra un terreno adibito alla coltivazione prevalentemente arbicola (fundus dictus, aut quod fundit quotquot annis multa).

A questo punto mi pare difficile pensare che Catone abbia potuto usare la formula ‘agrum terram fundumque meum’ senza avere alcuna consapevolezza della diversità di significato di tali vocaboli. Questi tre termini della forma lustrale, del resto, sono rappresentativi di un’epoca in cui il possesso dell’ager publicus era per definizione ancora precario e il complesso passaggio dal diritto augurale a quello laico nella riflessione dogmatica dei giuristi doveva essere appena agli inizi.

Prima di concludere resta da esaminare brevemente la formula ‘mihi domo familiaeque nostrae’. Essa rileva in due luoghi della lustratio (141. 2, 6 e 141. 3, 4), ma anche in Cato de agri c. 134. 2, dove è riportata la liturgia del rito della porca praecidanea; e in Cato de agri c. 139, dove c’è il testo di un piaculum espiatorio.

In questo caso non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che il termine familia nella formula di tali rituali fosse ancora impiegato nel suo significato più antico di ‘insieme di famuli’, ovvero di familia rustica nel senso di ’addetti alla coltivazione del fondo’. Si aggiunga che è molto probabile che nel lessico dei Tripertita di Sesto Elio (di pochi anni anteriore al de agri cultura la cui pubblicazione cade nel trentennio 180/150 a. C.) il testo della norma decemvirale sulla volontà testamentaria fosse reso nella forma retorica con la formula familia pecuniaque nel significato di ‘schiavi’ (=famuli) e forse anche di ‘bestiame’.

Quanto al vocabolo domus, esso deriva dalla radice indoeuropea *dem– (o *dom-) nel significato di ‘edificare’ o ‘costruire’, come in greco devmo=’edificare’ o dovmoS=’casa’. Per tale motivo, ad esempio, in russo, in lituano e in latino, il concetto di ‘casa’ viene reso rispettivamente con i vocaboli dom, namas, e domus.

Facciamo a questo punto un confronto tra l’espressione catoniana domo familiaeque meae e la famosa definizione ulpianea in cui il giurista definisce pater familias colui qui in domo dominius habet, ma anche che recte eiusdem familiae appellabuntur, qui ex eadem domo et gente proditi sunt. Avviandomi a concludere mi chiedo. Perché nella formula lustrale di Catone compare l’endiadi domo et familia, mentre in Ulpiano al vocabolo domo viene affiancato quello di gens?

Se si tiene conto del fatto che a livello istituzionale la cd. familia proprio iure si affermerà nella società romana solo alla fine dell’età repubblicana – e che, grosso modo, solo dalla stessa epoca le fonti atecniche cominciarono ad usare sempre più spesso il vocabolo familia in luogo di gens, – possiamo pensare che, evidentemente, prima ancora che nella terminologia dei giu­risti romani si consolidasse l’uso del termine familia per indicare le varie tipologie di raggruppamenti familiari (familia proprio iure e communi iure), nel linguaggio colto il termine domus venisse impiegato in un significato forse molto più ampio.

In un‘epoca in cui (l’epoca catoniana) con il termine familia veniva indicato molto pro­babilmente il ‘gruppo di persone addette alla lavorazione del fondo agricolo’, evidentemente, con domus si indicava sì, la dimora in senso materiale, ma anche in senso tecnico e figurato l’insieme degli stretti congiunti del pater. Evidentemente a causa di un processo di identificazione tra la ‘casa’ come ‘sede del gruppo’ e il gruppo stesso.

Bibliografia

Apuleio, De magia.

Celso, De medicina.

Ovidio, Metamorfosi.

Sacchi Osvaldo, Spunti per un’archeologia giuridica del linguaggio. Suggestioni ancestrali e terminologia giuridica nella Lustratio agri in Cato De Agri c. 141, online: https://dirittoestoria.it/iusantiquum/articles/Sacchi-Archeologia-giuridica-del-linguaggio.htm

Von Albrecht Michael, Storia della letteratura latina, Einaudi, Torino 1997.

Les droits des animaux d’Aristote à Martha Nussbaum

« L’homme est supérieur aux animaux non pas parce qu’il a la capacité de les torturer, mais parce qu’il est capable d’éprouver de la compassion pour eux ; et l’homme éprouve de la compassion pour les animaux parce qu’il sent que le même principe qui habite en l’homme habite en eux ».

Lev Tolstoj, “Pensées de sages”

Une photo a fait le tour du web montrant un petit chien s’approchant et consolant le jeune homme qui est en train de représenter la Passion de Jésus, lors de la théâtralisation du chemin de croix. La photo a été prise au Guatemala et relayée sur le web également en Italie, suscitant des commentaires admiratifs de la part des internautes, qui remarquent la principale qualité dont l’animal a fait preuve à cette occasion : l’empathie.

Les animaux sont souvent entrés dans les représentations païennes et chrétiennes. Dans le premier cas, on les retrouve par exemple dans les fresques égyptiennes, ou dans les scènes domestiques et guerrières des Grecs et des Romains, ou encore, ils sont le symbole de l’identité d’un peuple : le loup pour les Irpiniens, le sanglier pour les Samnites, le pic pour les Picènes, c’est-à-dire les anciens peuples italiques. Il s’agit d’animaux totémiques, c’est-à-dire identifiant le clan : l’ancêtre ou l’esprit qui guide. Parmi ces derniers, citons par exemple le loup apprivoisé par saint François (bien que des études récentes indiquent qu’il s’agissait en fait d’un brigand), ou le miracle de la mule agenouillée devant saint Antoine bénissant l’hostie.

Des philosophes comme Héraclite et Platon utilisent les animaux – en particulier le cheval – pour expliquer les vérités suprasensibles. Cependant, la philosophie n’a presque jamais été unanime quant à la considération du monde animal comme porteur de sa propre sensibilité, ni digne d’être reconnu comme détenteur de droits, au premier rang desquels celui de la vie. Même la théologie chrétienne, oubliant les nombreuses voix du passé qui s’étaient exprimées en faveur des droits des animaux, a exprimé sa propre vision hiérarchique et anthropocentrique de l’univers.

En fait, la philosophie a exprimé sur cette question des positions différentes et contrastées, et ce dès l’Antiquité.

Aristote, le grand spécialiste des phénomènes naturels et du monde animal, plaide d’une part pour une sorte de continuité entre les espèces, y compris les animaux et l’homme, mais réaffirme d’autre part sa vision anthropocentrique, que fera sienne plus tard également saint Thomas d’Aquin.

Le Stagirite, en effet, écrit dans la Politique :

Il faut croire que les plantes sont faites pour les animaux et les animaux pour l’homme, ceux qui sont domestiqués pour qu’il les utilise et s’en nourrisse, ceux qui sont sauvages, sinon tous, du moins la plupart, pour qu’il s’en nourrisse et s’en serve pour ses autres besoins, pour qu’il en tire des vêtements et d’autres objets[1].

Comme on l’a vu, Thomas d’Aquin, au Moyen Âge, reprenant Aristote, place l’homme au sommet de l’échelle de la création et lui attribue une âme rationnelle immortelle. Au contraire, selon lui, les animaux ne sont dotés que de l’âme sensorielle, destinée à périr avec le corps. C’est pourquoi, dans la Somme théologique, il peut affirmer que l’homme ne commet pas de péché en tuant des animaux et que “dans la hiérarchie des êtres, les moins parfaits sont faits pour les plus parfaits”[2]. En outre, pour saint Thomas, les animaux sont dominés par l’instinct et n’ont pas de sens moral ; par conséquent, le comportement de l’homme à leur égard n’est pas pertinent.

C’est plutôt Théophraste, le plus célèbre disciple d’Aristote, qui, s’inspirant des travaux zoologiques de son maître, plaide en faveur d’une affinité substantielle entre l’homme et l’animal, tant sur le plan physique que psychique, la structure de l’un et de l’autre étant la même. La pitié envers les animaux est clairement exprimée par Théophraste :

Si quelqu’un soutenait que, à l’instar des fruits de la terre, Dieu nous a aussi donné des animaux pour notre usage, je lui répondrais qu’en sacrifiant des êtres vivants, on commet une injustice à leur égard, car on les prive de leur vie[3].

Parmi les penseurs stoïciens qui se sont exprimés sur les droits ou non des animaux, on cite Chrysippe, Celse ou encore le poète Lucrèce.

Chrysippe, admiré et cité par Cicéron, affirmait que les animaux existent « pour servir les besoins de l’homme ». Au contraire, Celse a non seulement nié que l’univers ait été créé pour l’homme, mais il a également nié de manière plus convaincante le caractère unique de l’homme[4].Pour ce faire, il donne l’exemple des fourmis et des abeilles. Les premières communiquent entre elles et vénèrent les morts. Les secondes ont une reine accompagnée de serviteurs, font la guerre, remportent des victoires, ont le sens du travail et construisent des villes et des banlieues. Le philosophe grec attribue même la religiosité et la connaissance de Dieu aux oiseaux et aux éléphants.

Lucrèce et, plus tôt encore, Plutarque, attribuent pour leur part aux animaux des qualités qu’ils partagent avec les humains – percevoir, sentir, désirer, et même souffrir pour Lucrèce[5].

Les deux auteurs s’opposent fermement à la mise à mort d’animaux pour satisfaire le palais humain et s’attardent tous deux sur la brutalité de l’homme, qui inflige douleur et souffrance à des êtres sans défense[6].

Plus tard, entre le IIIe et le IVe siècle après JC, le philosophe et théologien Porphyre réaffirme qu’il est faux que Dieu ait créé les animaux pour l’homme et vante la conduite de Pythagore, qui pratiquait le végétarisme et s’éloignait le plus possible des chasseurs et des bouchers[7]. Porphyre, d’ailleurs, dans son ouvrage De abstinentia, passe en revue toute une série de peuples pratiquant le végétarisme, qui reste pour lui la plus grande forme de respect pour les autres formes de vie sur la planète. Convaincu que les animaux ont une âme rationnelle et croyant également à la transmigration des âmes même dans les corps animaux, Porphyre considère la consommation de viande comme une forme de cannibalisme.

Mais c’est surtout chez Descartes que la dévalorisation du monde animal devient complète, puisque, dans un univers dominé par des lois mécaniques, le seul sujet pensant est l’homme, tandis que les animaux sont réduits à des automates, sans pensée ni sensibilité.

Et c’est précisément à l’époque moderne que, en opposition à la vision anthropocentrique de l’aristotélisme et du cartésianisme, un débat intéressant s’est développé, connu sous le nom de querelle des bêtes ou « débat sur l’âme des animaux ». Ses partisans voulaient opposer des arguments à Aristote, qui considérait les animaux comme dépourvus de raison, et à Descartes, qui leur refusait même la capacité de ressentir.

C’est précisément dans cette controverse que se trouve l’œuvre de l’ecclésiastique Gerolamo Rarancio, intitulée Quod animalia bruta ratione utantur melius homine (Les animaux utilisent souvent mieux la raison que les humains). Peut-être écrit en 1539, cet ouvrage attribue aux animaux l’intelligence, la sagesse, l’esprit de sociabilité et même la crainte de Dieu. Il est resté inédit jusqu’en 1648, date à laquelle le libertin Gabriel de Naudé l’a imprimé en omettant l’adverbe “toujours” du titre, dans un but clairement provocateur. Les libertins étaient d’ardents défenseurs des droits des animaux, s’inspirant du philosophe Michel de Montaigne, qui considérait les humains incapables de comprendre l’âme des animaux. Dans les Essais, le philosophe français les considère capables de langage et de communication entre eux, capables d’altruisme et d’amour :

Comment pourraient-ils ne pas se parler ? Ils nous parlent et nous leur parlons. De combien de façons parlons-nous à nos chiens ? Et ils nous répondent. (Montaigne, 1970, 593-594).

Montaigne compare les préjugés envers les animaux aux préjugés dirigés contre les peuples « sauvages » des Amériques, vers lesquels se sont dirigés les conquêtes et le colonialisme à ce moment historique. Pourtant, souligne Montaigne, de même que chaque peuple a sa culture, chaque animal a son propre regard sur le monde. Ainsi est introduit le critère du relativisme, qui est un point clé dans la réflexion des libertins. Charron, ami de Montaigne, condamne la cruauté envers les animaux dans son ouvrage La Sagesse, de 1601. Le libertin Pierre Bayle, contemporain de Locke, dans son Dictionnaire historique et critique (1696), en réévaluant les capacités des animaux, explique que les âmes des animaux et des hommes sont de même nature et que les âmes des premiers sont comme celles des enfants. En effet, dit Bayle, même Aristote et Cicéron à l’âge d’un an n’avaient pas de pensées plus sublimes que celles d’un chien, et si leur enfance s’était prolongée jusqu’à trente ou quarante ans, leurs pensées seraient restées au niveau des « sensations ou des gourmandises ». C’est donc par hasard qu’ils ont dépassé les animaux. Mais il y a plus : les bêtes ne pèchent pas, mais leur âme est soumise à la douleur et à la misère, tandis que les hommes pèchent chaque fois qu’ils tuent, chassent, pêchent en recourant à mille ruses et violences, comme Domitien qui s’amusait à tuer des mouches. N’est-il donc pas cruel de soumettre une âme innocente à tant de tourments ?

Il convient de rappeler que c’est au XVIIe siècle, plus précisément en 1641, qu’une première réglementation partielle a été adoptée pour protéger les droits des animaux. Elle a été édictée par le tribunal du Massachusetts. La règle stipule ce qui suit :

Aucun homme ne peut exercer de tyrannie ou de cruauté envers les animaux qu’il élève pour son propre usage.

C’est pourtant avec Leibniz que s’ouvrent des perspectives intéressantes quant à la reconnaissance des capacités des animaux. Le philosophe allemand, inventeur de la monadologie, revalorise au maximum chaque individualité vivante et exprime l’idée d’une nature animée, dans laquelle toutes les choses sont liées et où la multiplicité des points de vue à partir desquels les êtres individuels regardent les choses est une manifestation de la gloire de Dieu. Dans la Théodicée (1697), Leibniz soutient l’idée que Dieu n’a pas de perspective anthropocentrique, mais qu’il est aimant envers chaque créature, veillant à l’équilibre de l’univers. Même les animaux, selon lui, ont des sentiments, une mémoire, une morale. Mais c’est avec la fameuse doctrine des « petites perceptions » que se révèle l’erreur des cartésiens qui, en confondant perception et conscience, ont cru à la fausseté, à savoir que les bêtes n’ont pas d’âme (Leibniz, 1697c, 276).

Le tournant de la philosophie éthique est représenté par les Lumières.

Réaffirmant que les animaux ont des sentiments, une mémoire et des idées, le philosophe des Lumières Voltaire précise, sous le titre “Bêtes” de son Dictionnaire philosophique (1764), que c’est “une honte” et “une misère d’avoir dit que les bêtes sont des machines dépourvues de connaissances et de sentiments, qu’elles font toujours tout de la même manière, qu’elles n’apprennent rien, et qu’elles ne se perfectionnent pas”. Selon lui, il suffit d’observer le monde des oiseaux : ils font leur nid en s’adaptant à la position du socle qu’ils trouvent (un mur, la branche d’un arbre) ; les canaris apprennent immédiatement une mélodie et se corrigent s’ils font une erreur. La pratique de la vivisection sur animaux vivants est condamnée, en raison des souffrances que cette pratique leur occasionne.

Voltaire est en très bonne compagnie en ce qui concerne l’idée que les animaux doivent être considérés moralement : Rousseau, Condillac, Bonnet, Tyron, Hume sont également là pour le rappeler. Kant, quant à lui, n’ajoute pas grand-chose : l dit seulement qu’éviter la cruauté envers les animaux nous aide à ne pas être cruels envers les autres êtres humains.

En Italie, Giacomo Leopardi participe à la querelle des bêtes à travers ses écrits. D’abord dans son œuvre de jeunesse Dissertazione sopra l’anima delle bestie, puis dans quelques réflexions du Zibaldone, dans les Operette morali, dans les Paralipomeni della Batracomiomachia et dans le Dialogo di un Folletto e di uno gnomo.

Pour le poète des Marches, « les animaux ont un usage très suffisant de la raison » (Zibaldone, 2 décembre 1820) et aussi des sentiments. L’anthropocentrisme, réfuté à plusieurs niveaux, est le résultat d’une erreur de jugement de la part des différentes espèces vivantes, qui croient chacune que le monde a été créé spécifiquement pour elles.

En Angleterre, Jeremy Bentham, aux considérations traditionnelles sur l’intelligence et le langage des animaux, ajoute un nouvel élément de réflexion sur la considération morale qui leur est due, à savoir leur capacité à souffrir. Dans Introduction to the Principles of Morals and Legislation il écrit :

La question à poser n’est pas « Peuvent-ils raisonner ? », ni « Peuvent-ils parler ? », mais « Peuvent-ils souffrir ? ». (BENTHAM JEREMY, Introduction aux principes de morale et de législation [1789], traduit par Stefania Di Pietro, UTET, Turin 2013).

De plus, dans le même ouvrage, Bentham prophétise :

Un jour viendra où les animaux de la création acquerront les droits qui n’ont pu leur être retirés que par la main de la tyrannie. Pourquoi la loi devrait-elle refuser sa protection à tout être sensible ?

Arthur Schopenhauer, qui, comme le montre sa biographie, n’avait d’affection sincère que pour son chien, est convaincu que

Une pitié sans limites pour tous les êtres vivants est la plus forte garantie d’un bon comportement moral (Ditadi Gino, I filosofi e gli animali, Isonomia, 2 vols, Este (PD) 1994, II, 785).

En 1871, Giuseppe Garibaldi promeut la première société italienne de protection des animaux, tandis que vingt ans plus tard, Henry Salt fonde la Humanitarian League (Ligue Humanitaire), dans le but d’abolir toute souffrance infligée à tout être sensible. Parmi ses objectifs figurait l’abolition de la chasse.

Il convient également de mentionner une tendance qui, au sein de l’évolutionnisme positiviste, souligne la continuité entre l’espèce animale et humaine.

Le XXe siècle est un siècle prolifique d’œuvres qui réaffirment le respect dû aux animaux. Parmi ceux-ci : Richard Hood, Jack Dudley Ryder, Piero Martinetti, Cesare Goretti, Albert Scheitzer, Peter Singer (avec le célèbre essai Animal Liberation) et Tom Regan.

Des associations sont créées pour protéger les droits des animaux. Le 15 octobre 1978, la Déclaration universelle des droits de l’animal est proclamée à Paris. Ce document, élaboré par des juristes, des scientifiques et des associations, s’il n’a pas de valeur juridique, a une grande valeur symbolique et ouvre la voie à des législations nationales sur le sujet.

Le défaut des positions de Regan, Singer et d’autres réside, selon certains critiques, dans le fait qu’ils ont essayé de fonder l’éthique des animaux en dehors des émotions (sentiment de sympathie ou de compassion à leur égard).

Le philosophe américain Gary Lawrence Francione défend le droit fondamental des animaux à ne pas être traités comme des objets appartenant à des humains.

À l’époque moderne, la philosophe américaine Martha Nussbaum s’est également intéressée aux émotions et aux droits des animaux, dépassant ainsi la théorie des anciens stoïciens qui niaient simplement que les animaux aient des émotions. C’est pour cette raison qu’elle s’est tournée vers l’éthologie moderne et la psychologie cognitive pour obtenir une évaluation cognitive des autres espèces.

Une partie de sa théorie néostoïque (comme Nussbaum l’appelle elle-même) est le point commun entre les humains et les autres animaux[8]. La philosophe va plus loin en reconnaissant également aux animaux le droit d’être soutenus dans leur capacité à agir et à se battre. Par ailleurs, certaines conceptions libérales vont plus loin, reconnaissant des droits à tous les êtres vivants, même aux écosystèmes.

Nussbaum, dans sa célèbre théorie des capacités, qui est à la base de son idée de justice, reconnaît que les humains et les animaux ont des capacités et que les États doivent soutenir et encourager le développement de chacun d’eux[9]. Le philosophe reconnaît également que les expériences menées sur les animaux nous disent que la compassion animale est plus limitée que la compassion humaine.

L’étude des animaux, selon Nussbaum, est intéressante car elle révèle nos erreurs et nous permet d’en apprendre beaucoup sur les racines communes de la compassion et de l’altruisme. À cet égard, l’auteure cite l’étude de Waal[10] sur une importante distorsion de l’émotivité humaine : l’anthroponégation. Il s’agit de la tendance des êtres humains à nier leur animalité et leur parenté avec les autres animaux, avec toute la charge de dégoût que cela implique.

Nussbaum est d’accord avec Aristote, qui, en tant que grand biologiste et philosophe, a soutenu que tous les animaux, et pas seulement les humains, craignent les maux extérieurs qui peuvent leur nuire[11]. Ici aussi, comme dans d’autres émotions, il y a une composante évaluative des avantages et des dommages que la réalité extérieure implique pour nous :

La peur n’est pas seulement la première émotion à apparaître dans la vie humaine, c’est aussi la plus partagée au sein du règne animal. (La monarchia della paura, p. 34)[12].

Pour conclure, Martha Nussbaum est convaincue que la liste des capacités, convenablement élargie, doit être attentive et respectueuse des formes de vie de chaque espèce et promouvoir pour chacune, la capacité de vivre et d’agir selon la forme de vie de cette espèce (à cet égard, Nussbaum ajoute que même si le choix doit être préservé partout, là où la créature a la possibilité de choisir, s’en tenir au fonctionnement sera plus adapté dans ces cas que pour les êtres humains. Cf. Capabilités p. 216). Le philosophe est également convaincu qu’il faut mettre fin à toutes les injustices considérables commises par l’industrie alimentaire, comme dans la pêche et la chasse sportive. En ce sens, même l’utilisation de viande artificielle, obtenue à partir de cellules souches, peut, selon elle, contribuer à un monde plus juste.

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[1] ARISTOTE, La Politica, tr.it. par Renato Laurenti, Laterza, Rome-Bari 1966, 26.

[2] GINO DITADI, I filosofi e gli animali, Isonomia, Este (PD) 1994, 2. voll, 427.

[3] Cité dans BARBARA DE MORI, Che cos’è la bioetica animale, Carocci, Rome 2007, p. 64.

[4] Celse, Le vrai discours [II sec. d.C.], par Giuliana Lanata, Adelphi, Milan 1987.

[5] PLUTARQUE, De sollertia animalium.

[6] Plutarque dans De eu carnium et Lucrèce dans De rerum natura, du I siècle. a.C.

[7] C’est ce qu’il affirme dans Vita pitagorica.

[8] Cf. la page 21 de L’intelligenza delle emozioni (2004). Ici, le terme « communauté » est rendu en anglais par commonality.

[9] Cf. Capabilités (2012), p. 36 ; M. Nussbaum, Frontiers of Justice (2006), p. 33. Les capacités dont parle Nussbaum sont : 1) La vie 2) La santé physique 3) L’intégrité physique 4) Les sens, l’imagination et la pensée 5) Les sentiments 6) La raison pratique 7) L’appartenance 8) Les autres espèces 9) Le jeu 10) Le contrôle des siens environnement.

[10] Page 196de l’ouvrage Emozioni politiche (2014).

[11] ARISTOTE, Historia animalium.

[12] Selon Nussbaum, dans le monde animal, la peur est surmontée par des formes de coopération (comme celle entre éléphants). L’enfant, quant à lui, n’a qu’un seul moyen d’obtenir ce qu’il veut : utiliser les autres).

Importance des espaces internes, welfare et mondialisation

ABSTRACT

In his speech on 20 January 2024, Pope Francis dwells on inland areas, which are the most fragile in Italy, but also the richest in natural resources and community spirit. We must start from these links to support these fragile areas, where the state does not arrive. His proposal of community welfare is parallel to that of generative welfare, by the Italian economist Leonardo Becchetti. Both bring the human back to the centre, against the consumerist drift of mass society.

Keywords: generative welfare, community welfare, Pope Francis, inland areas

L’importance des zones internes selon le pape François

Le 20 janvier 2024, le Pape François a adressé un important Discours aux membres de l’Asmel, l’Association pour la subsidiarité et la modernisation des collectivités locales [1]. Le Saint-Père y aborde le thème de la fragilité et en même temps de la richesse des zones intérieures, dans lequel il renouvelle son intérêt pour la durabilité environnementale, dans le sillage de ce qu’il avait déjà fait dans l’encyclique Laudato sì de 2015.[2]. Les thèmes de la relation et de la participation à la préservation de la nature, de la technoscience bien orientée, de l’utilisation raisonnée des ressources, de la responsabilité collective, déjà présents dans cette dernière encyclique, reviennent dans le Discours, dans le but de réaffirmer que la recherche du profit et la foi dans la technologie ne peuvent oublier ou piétiner l’humain. La nouvelle perspective présentée dans ce discours est, cette fois, centrée sur la richesse inestimable que représentent les zones dites “intérieures”, souvent mal desservies par les services les plus importants et destinées à la désertification.

Le pape François s’attarde longuement sur la “culture du déchet” :

Les petites communes, notamment celles qui font partie des zones dites intérieures, et qui sont la plupart, sont souvent négligées et se retrouvent dans une condition marginale. Les citoyens qui y vivent, une partie importante de la population, souffrent d’importantes lacunes en termes d’opportunités, et cela reste une source d’inégalité.

À l’origine de ces écarts, il y a le fait qu’il est trop coûteux d’offrir à ces territoires la même dotation en ressources qu’aux autres régions du pays. Nous voyons ici un exemple concret de la culture du gaspillage : “tout ce qui ne sert pas le profit est jeté” [1]. Un cercle vicieux est ainsi enclenché : le manque d’opportunités pousse souvent la partie la plus entreprenante de la population à partir, ce qui rend les territoires marginaux de moins en moins intéressants, de plus en plus abandonnés à eux-mêmes. Ceux qui restent sont principalement les personnes âgées et celles qui ont le plus de mal à trouver des alternatives. Par conséquent, le besoin d’État-providence augmente dans ces territoires, alors que les ressources pour y répondre diminuent.

Ce manque chronique de services est contrebalancé par la présence de richesses environnementales extraordinaires. Cependant, le dépeuplement constant de ces zones empêche la prise en charge du territoire et les rend fragiles, en proie à une instabilité qui provoque toutes sortes de calamités et d’urgences : inondations, pluies torrentielles, sécheresses, incendies, tempêtes de vent :

En regardant ces territoires, nous avons la confirmation du fait qu’écouter le cri de la terre signifie écouter le cri des pauvres et des exclus, et vice versa : dans la fragilité des personnes et de l’environnement, nous reconnaissons que tout est lié – tout est lié ! -que la recherche de solutions exige de lire ensemble des phénomènes souvent considérés comme séparés. Tout est lié.

Prendre soin des territoires des zones intérieures est, selon le Pontife, un grand défi de notre temps, pour ces raisons :

Il y a quelque chose de plus grand en jeu que la qualité de vie et le soin des territoires d’où vous venez, qui méritent également tous les efforts. Depuis toujours, et encore aujourd’hui, ce sont les zones marginales qui peuvent devenir des laboratoires d’innovation sociale, en partant d’une perspective – celle des marges – qui nous permet de voir différemment les dynamiques de la société, en découvrant des opportunités là où d’autres ne voient que des contraintes, ou des ressources dans ce que d’autres considèrent comme des déchets. Les pratiques sociales innovantes, qui redécouvrent des formes de mutualité et de réciprocité et reconfigurent la relation avec l’environnement dans la clé du soin – des nouvelles formes d’agriculture aux expériences de bien-être communautaire – demandent à être reconnues et soutenues, afin de nourrir un paradigme alternatif au bénéfice de tous.

À une époque qui, malgré les progrès technologiques, enregistre des abîmes de pauvreté et des inégalités effrayantes, le Pape François nous rappelle la valeur de l’entraide. Il nous dit qu’il existe un espace dans lequel les personnes et les associations se substituent à l’État pour soutenir les zones fragiles. Dans ces zones marginales, il arrive souvent que l’État n’arrive pas. Le pape propose quelques pistes pour soigner et récupérer ces zones marginales : 1) la recherche de nouveaux rapports entre le public et le privé, les lieux de participation pour un renouveau de la démocratie ; 2) l’intelligence artificielle utilisée dans une logique de soin et non de destruction ; 3) avoir des enfants, ce qui banalement permet de survivre.

  1. Retour de la faim et de la pauvreté

Le discours du Pape François sur les zones intérieures est l’occasion d’insister sur l’importance de régénérer ces lieux destinés au dépeuplement à travers de bonnes actions et pratiques communautaires qui, d’une part, comblent le manque de services souvent essentiels et, d’autre part, assurent la cohésion de communautés de plus en plus fragiles vivant dans des zones encore durables et à rythme lent.

Notre époque est paradoxale, car à tous les niveaux nous assistons à la recherche d’une consommation de plus en plus aliénante, comme la drogue et les jeux de hasard. Si le capitalisme en tant qu’organisation de la société et de l’économie s’est instauré avec la Révolution française (1789-1799), la société, à partir du XXe siècle, a été dominée par le consumérisme et les problèmes qui y sont liés : exploitation, manque de protection, bas salaires, marchandisation des relations humaines.

Le paradoxe de notre époque est que la croissance économique, interprétée en termes de simple augmentation du PIB, a produit de la pauvreté au lieu de l’éradiquer. Les exemples sont nombreux et indiquent que notre rapport à la fortune, au concept de richesse, à ce que nous entendons par économie, doit être complètement revu.

La mondialisation a accru les inégalités et l’exemple le plus clair est celui des États-Unis, où l’extrême pauvreté n’a cessé de croître depuis plus de quarante ans et où 21 % des enfants sont sans abri[3].

Le rapport d’Oxfam 2023, intitulé La disuguaglianza non conosce crisi (L’inégalité ne connaît pas la crise), note que :

Au cours de la période 2020-2021, les 1 % les plus riches de la planète ont bénéficié de près de deux tiers de l’augmentation de la richesse nette globale, soit six fois plus que la part de l’augmentation qui a affecté les impôts sur la fortune des 7 milliards de personnes qui constituent les 90 % les plus pauvres de l’humanité[4].

Au chapitre 1 du rapport, nous lisons :

Le monde est confronté à une période sans précédent caractérisée par de multiples crises. Des dizaines de millions de personnes supplémentaires souffrent de la faim. Des centaines de millions d’autres sont accablés par des augmentations extraordinaires des coûts des biens de première nécessité ou du chauffage de leurs maisons. La crise climatique paralyse les économies et des phénomènes tels que les sécheresses, les cyclones et les inondations forcent les gens à quitter leur foyer. Des millions de personnes souffrent encore des conséquences persistantes du COVID-19, qui a déjà causé 20 millions de morts. Cependant, il ne manque pas ceux qui, face à de telles crises multiples, ont vu leurs conditions économiques se consolider : les individus les plus riches sont devenus incroyablement plus riches et les profits des grandes entreprises ont atteint des niveaux records, provoquant une explosion des inégalités[5].

L’extrême pauvreté, qui, comme le souligne Oxfam, était un phénomène en diminution constante au cours des 25 dernières années, a recommencé à augmenter, parallèlement à l’extrême richesse, grâce à la pandémie et à la guerre :

Les goulets d’étranglement dans les chaînes d’approvisionnement en raison de la pandémie et de la guerre en Ukraine, le comportement prédateur des grandes entreprises et le changement climatique sont tous des facteurs qui ont contribué à pousser les prix de l’alimentation et de l’énergie à des sommets historiques, avec une hausse des prix des denrées alimentaires qui devrait atteindre 18% en 2022 par rapport à 2021 (+59% en ce qui concerne les prix de l’énergie).

On estime qu’entre 702 et 828 millions de personnes ont souffert de la faim en 2021, soit près d’un dixième de la population mondiale. Dans chaque région, la prévalence de l’insécurité alimentaire est plus élevée chez les femmes que chez les hommes. En 2020, il a été estimé que près de 60% des personnes souffrant de la faim sont des femmes et des filles, et depuis lors, l’écart entre les sexes n’a fait que croître.[6]

Thomas Piketty, dans son célèbre essai intitulé Le capital au XXIe siècle[7], qui analyse le développement du capitalisme entre le XIXe et le XXe siècle, explique que l’évolution des inégalités de revenus suit une courbe en U et que les niveaux d’inégalité atteints au début du XXIe siècle sont les suivants.

Joseph E. Stiglitz, prix Nobel d’économie, peut bien affirmer : «La mondialisation, quel que soit le genre et le nombre de ses vertus pour stimuler la croissance, a presque certainement accru les inégalités»[8].

La mondialisation, c’est-à-dire “l’élimination des obstacles au libre-échange et l’intégration accrue entre les économies nationales”, aurait pu être une force capable d’enrichir n’importe qui de la manière, “particulièrement les pauvres”, mais selon Stiglitz, « Il est nécessaire de repenser soigneusement la façon dont elle a été gérée »[9].

Le sociologue italien Luca Ricolfi a écrit le livre La società signorile di massa (Edizioni La Nave di Teseo, 2019), dans lequel il dessine un tableau peu réconfortant de la situation italienne actuelle. L’auteur affirme que notre pays est le seul exemple au monde d’une société qui consomme plus qu’elle ne produit, jouissant d’un mode de vie seigneurial précisément dans une phase de stagnation économique, civile et culturelle. Car les revenus qui permettent de maintenir un style de vie élevé ne proviennent pas directement du travail. À tel point que Ricolfi commence son livre en citant Ralf Dahrendorf : « La société centrée sur le travail est morte, mais nous ne savons pas comment l’enterrer ».

  • Société seigneuriale de masse

Ce type de société seigneuriale, hédoniste et consumériste, vit aujourd’hui de rente, c’est-à-dire des ressources accumulées par des gens actifs. Ce n’est pas un hasard si les pensions représentent le principal amortisseur social au sein des familles, dont huit millions sont à l’abri du risque de pauvreté. À cela s’ajoutent les récentes politiques de subsistance qui ne nourrissent pas le travail, ne produisent pas de valeur, mais invitent à s’asseoir confortablement sur le canapé à la maison en attendant la subvention de l’État. Dans ce scénario de négligence coupable, on assiste, depuis de nombreuses années, au démantèlement du système scolaire, avec l’abaissement des niveaux d’instruction. Des poches de pauvreté se forment pour y placer une partie de la population étrangère résidant sur notre territoire. Le sens de la mémoire et de ce qui a été construit par les générations précédentes est en train de disparaître.

Ce processus que Ricolfi appelle d'”argentinisation lente” de l’Italie, sera fatal précisément parce que la plupart ne se secouent pas de leur inertie et vivent en consommant, dans une société, disons, de plus en plus fatiguée et en colère.

La vision de Ricolfi synthétise des éléments épars, mais ne propose pas de pistes pour le bonheur individuel et collectif.

Il semble que rien ne nous attende, sinon l’abîme. Et en effet, le rapport d’Oxfam photographie une réalité impitoyable, où la faim et la pauvreté ont explosé après un quart de siècle de parfaite stagnation.

3. L’innovation et l’espoir sont des voies viables

Si le pape François nous invite à prendre soin de l’environnement et des relations humaines et à nous soucier de l’avenir des territoires intérieurs, moins touchés par la pression exercée sur les grands centres, il est également possible d’analyser la période historique actuelle à travers d’autres types de lectures qui , tout comme le Discours du Pape, nous montrent des chemins possibles d’espérance et d’innovation comme viables. Par conséquent, l’analyse de Ricolfi, impitoyable et véridique, doit nécessairement être combinée avec ces ferments sociaux qui, bien que très souvent bien cachés, imprègnent notre société, nous disant qu’il existe un pays meilleur que celui décrit jusqu’à présent. En effet, dans les plis de la société de masse mondaine, il existe une société civile engagée, solidaire, générative. Cette société silencieuse mais existante et même bien enracinée, dont Ricolfi ne parle pas, offre des alternatives quotidiennes à la pauvreté, à la marginalisation, à la perte des valeurs et de la mémoire. Elle coïncide avec les centaines d’associations de coopération et de volontariat qui opèrent au niveau national et international, ainsi qu’avec les nombreuses expériences d’innovation sociale et économique qui ne font souvent même pas la une des journaux, mais qui existent bel et bien.

Il faudrait ici beaucoup de temps pour reconstituer, même au moyen de références rapides, le travail de nombreuses petites et grandes associations et communautés laïques et religieuses qui opèrent dans le tissu social, souvent en contact avec des réalités difficiles et oubliées: de San Patrignano à Libera, des Urgences à Sant’ Egidio, etc. etc.[10]

La société seigneuriale de masse, telle que décrite par Ricolfi, sert à nous faire prendre acte de l’abîme dans lequel nous sommes tombés : celui d’une société sans culture, intéressée par le profit facile et la consommation sans but, manquant d’humanité et d’empathie.

Dans ce scénario, dépourvu de bonheur, de sens, de bien-être[11], un autre espace très intéressant de créativité et d’espoir qui s’est ouvert aujourd’hui est représenté par le welfare génératif, qui vise précisément le bonheur et le bien-être..

Le critère de ce nouveau type de welfare est d’investir en soi et de créer des talents disponibles pour la communauté. Si notre critère de bonheur est de faire quelque chose dans le seul but d’obtenir un plus grand gain, nous sommes alors voués à un malheur perpétuel. Alors que le discours change si nous nous mettons du côté de la générativité, de la création de valeur sociale, de la valeur ajoutée pour le territoire. Être génératif suppose de comprendre le contexte dans lequel on vit, d’avoir une vision, d’élaborer des réponses, de construire de bonnes pratiques, de les communiquer et d’interagir avec les décideurs (policymakers).

Mais quelles sont les “maladies” actuelles du monde dans lequel nous vivons ? Et comment, par conséquent, est-il possible d’établir des critères de bonheur ?

Concernant le premier point, étant donné que le système socio-économique est aujourd’hui très instable, quatre grands problèmes peuvent être identifiés : le travail, l’environnement, le climat et la migration, la recherche du sens de la vie.

  • Le travail place le profit de l’entreprise au centre, en oubliant souvent le travailleur, dont la santé devrait au contraire être préservée. Il pose des problèmes liés au sous-coût qui permet aujourd’hui d’acheter une vaste gamme de produits et qui cache le problème du sous-salaire. À cet égard, le pape François a réitéré à plusieurs reprises l’idée selon laquelle nous devons établir une « économie du bonheur », qui ramène l’homme au centre.
  • Le problème de l’environnement est fortement ressenti par les jeunes générations d’aujourd’hui. La pollution et le réchauffement de la planète font partie des questions les plus importantes pour les gouvernements des différents pays. En Italie, 219 personnes meurent chaque année à cause de la pollution[12].
  • Le climat et les migrations sont des phénomènes liés. Il suffit de penser qu’en raison du réchauffement, les migrations se chevauchent depuis plusieurs années, même si elles n’ont pas encore eu leur place dans le débat public. Selon la Banque mondiale, d’ici 2050, 143 millions de personnes vivant actuellement en Afrique subsaharienne, en Amérique latine et en Asie du Sud pourraient se déplacer de force[13].
  • Enfin, il y a le problème de la difficulté des relations, de la pauvreté en temps, de l’incertitude économique et de la pauvreté émotionnelle. Le sens de la vie que la société semble rechercher désespérément, le niveau élevé d’insoutenabilité d’une vie qui n’est pas soutenue par un sens, produisent des résultats effrayants : aux États-Unis, le nombre de personnes qui mettent fin à leurs jours augmente, et il ne s’agit pas seulement d’un problème de santé mentale. Les problèmes relationnels arrivent en première position (42 %)[14].

Quels sont donc les facteurs qui influencent le bonheur d’un individu ?

Pour tenter de les identifier, nous nous référons au rapport mondial sur le bonheur (World Happiness Report) publié par Jeffrey Sachs, Richard Layard et John Helliwell en 2016. Il identifie six variables qui expliquent 75 % des différences de niveaux de satisfaction à l’égard de la vie. La recherche a été menée sur des centaines de personnes issues de centaines de pays différents à travers le monde. Dans l’ordre, les facteurs sont : le revenu, la santé, la liberté d’initiative, l’absence de corruption, les relations et la gratuité.

Ces six variables permettent de construire une théorie politique de la générativité9. La générativité signifie que le bonheur est l’effet d’une vie bien dépensée, c’est-à-dire la capacité d’être utile aux autres.

La générativité biologique est la capacité de mettre au monde des enfants.

La générativité parentale consiste à éduquer les enfants.

La générativité sociale consiste à créer de la valeur sociale.

La générosité politique dans la recherche de solutions pour le pays.

La générativité civile consiste à créer de la valeur économique.

La générativité culturelle en étant producteurs de culture.

La générativité spirituelle pour aider le prochain dans la recherche de sens et de connexion avec l’Absolu.

Le welfare génératif, comme le dit l’économiste Leonardo Becchetti, consiste donc en la capacité de s’impliquer et d’agir pour créer de la valeur. La philosophe américaine Martha Nussbaum, quant à elle, parle des capabilities comme de l’ensemble des potentialités que l’individu doit développer pour jouir d’une vie pleine et entière[15].

  • L’épanouissement des capacités

Le point de vue de Nussbaum est extrêmement intéressant et mérite qu’on s’y attarde. La philosophe américaine part de la question suivante : quand une vie vaut-elle la peine d’être vécue ?

Cette question ne s’applique pas seulement à Socrate et aux Athéniens. Elle s’applique également à l’homme contemporain. Nussbaum et Amartya Sen reformulent les droits de l’homme dans le cadre d’une conception générale d’une vie qui vaut la peine d’être vécue et qui n’est pas une vie uniquement soumise aux lois du marché. Dans Creating Capabilities: The Human Development Approach[16], la question est posée en termes philosophiques. Un homme vit vraiment pleinement s’il peut utiliser ses sens et son imagination, s’il peut penser et cultiver une éducation adéquate, s’il peut se faire une idée de ce qui est bon et de ce qui est mauvais, ressentir, faire des choix humains et professionnels, éthiques et politiques.

Cette construction d’une identité individuelle et d’un projet de vie passe par la problématisation de l’existence, l’expérience de la nouveauté, même, comme le dit la philosophe, au prix d’un voyage solitaire en tant que citoyen du monde, le remaniement de la mémoire, l’action sur le présent par le remaniement du passé. L’image utilisée par Martha Nussbaum Nussbaum pour indiquer ce processus d’affirmation de son plein potentiel est : la floraison (présente dès les premières pages du remarquable ouvrage The Fragility of Goodness. Luck and Ethics in Greek Tragedy and Philosophy[17], qui l’a fait connaître aux universitaires et intellectuels du monde entier depuis les années 1980).

Sortant du simple langage économique, il est alors possible de revendiquer une notion d’utilité en suivant différents critères pour que la vie vaille la peine d’être vécue. On se rend alors compte que tout ce qui sert à cela est utile, tout ce qui donne de la valeur à notre vie et la rend digne d’être vécue. En ce sens, l’exercice de la philosophie est également utile, en tant que questionnement continu sur le sens de l’existence, réflexion sur soi, réflexion sur les problèmes de justice, de société, de bien public. Il est également utile d’éprouver des sentiments, car ils contribuent à notre bien-être. Il est utile d’apprécier la beauté d’une œuvre d’art. Il est utile d’utiliser nos possibilités sensorielles et motrices pour nous orienter dans ce monde et l’explorer.

Se placer dans cette perspective, c’est remettre au centre la valeur de l’être humain et sa capacité à entrer en empathie générative avec son prochain.

À cet égard, il est utile de rappeler qu’en 1968, Robert Kennedy, alors président des États-Unis, a prononcé un discours important à l’University of Kansas sur la capacité limitée du produit intérieur brut (PIB), en tant qu’indicateur, à représenter l’état de bien-être d’une nation. Le PIB nous indique la quantité produite, mais il ne nous dit pas si ce qui est produit est consommé par nécessité ou pour répondre aux besoins induits par le système des médias de masse. Kennedy nous invite donc à revoir notre échelle de valeurs et même les hommes d’État doivent changer de perspective et d’outils pour évaluer ce que l’on entend par richesse et bien-être d’un pays. Dans un passage de son discours, Kennedy déclare :

Avec trop d’insistance et depuis trop longtemps, nous semblons avoir abandonné l’excellence personnelle et les valeurs communautaires au profit de la simple accumulation de biens matériels. Notre PIB dépasse les 800 milliards de dollars par an, mais ce PIB – si nous jugeons les États-Unis à l’aune de ce chiffre – comprend également la pollution de l’air, la publicité pour les cigarettes et les ambulances qui débarrassent nos autoroutes du carnage des week-ends. Le PIB inclut dans le projet de loi des serrures spéciales pour nos portes d’entrée et des prisons pour ceux qui tentent de les forcer. Il inclut le fusil de Whitman et le couteau de Speck, ainsi que les programmes télévisés qui glorifient la violence afin de vendre des jouets à nos enfants. Il croît avec la production de napalm, de missiles et d’ogives nucléaires et n’augmente que lorsque les bidonvilles populaires sont reconstruits sur leurs cendres. Il comprend des véhicules blindés de police pour faire face aux émeutes urbaines. Le PIB ne prend pas en compte la santé de nos familles, la qualité de leur éducation ou la joie de leurs moments de loisirs. Il ne comprend pas la beauté de notre poésie, la solidité des valeurs familiales ni l’intelligence de notre débat. Le PIB ne mesure ni notre esprit, ni notre courage, ni notre sagesse, ni nos connaissances, ni notre compassion, ni notre dévouement envers notre pays. En termes simples, il mesure tout, sauf ce qui fait que la vie vaut vraiment la peine d’être vécue. Cela peut tout nous dire sur l’Amérique, mais pas si nous pouvons être fiers d’être Américains. [18].

  • Conclusions

Une société malheureuse comme celle dans laquelle nous vivons, où les signes de méfiance et de fatigue sont perceptibles partout, est une société repliée sur elle-même, incapable de créativité, de gratuité, intéressée uniquement par la consommation rapide et vide de sens, précisément pour combler cette quête de sens et cette faim de sens qu’elle déverse dans la pratique de l’achat boulimique et compulsif de produits de toutes sortes. C’est aussi une société en proie aux peurs liées aux “urgences” réelles ou supposées qu’un appareil médiatique massif nous propage continuellement et systématiquement (guerre, pandémie, crise climatique), ainsi qu’aux manipulations psychologiques des “influenceurs” qui ont l’art d’insinuer leur travail là où il y a un manque de réflexion. Partout où les masses manquent d’autonomie de pensée et de modèles sains, elles ont besoin d’être guidées dans le choix des choses les plus élémentaires de la vie, des vêtements à la nourriture.

L’homme incapable de relations de qualité est socialement nuisible. Il est méfiant et cynique, prêt à dévorer l’autre, comme dans la société de Hobbes, où le fait d’être un “loup pour l’autre homme” met tout le monde dans l’attente que le Léviathan soulage l’être humain de la terreur de vivre. Il faut alors changer de perspective, comme dans la société conçue par Hume, où le don remplace le vol et où il est clairement dit que les récoltes sont perdues lorsque la confiance mutuelle fait défaut dans la société. Le don est libérateur, il est fortement générateur, il met en condition d’échange et donc de réciprocité. Les solutions coopératives génèrent de la super-additivité. Dans la société, comme dans les entreprises à forte éthique, lorsque l’accent est mis sur les relations, plus de profit est généré. C’est une loi économique. Le nouveau paradigme de l’économie civile devrait donc inclure l’État, le marché, la citoyenneté active et l’entreprise responsable.

En Italie, il existe déjà de nombreuses initiatives éthiques visant l’innovation, la coopération, la solidarité et la lutte contre la marginalisation. L’une d’entre elles remonte à 2020 : le 24 janvier de cette année-là, les signataires du Manifeste d’Assise pour une économie à taille humaine contre la crise climatique se sont réunis pour la première fois[19]. Dans le sillage de l’encyclique Laudato sì du Pape François, le Manifeste promu par le Symbola et déjà signé par plus de deux mille personnes, est un nouvel exemple d’une société active et participative qui ne veut pas seulement s’installer dans le consumérisme effréné de la société seigneuriale de masse, mais qui s’engage à chercher des solutions pour un monde plus juste et plus durable..

Le dernier Discours important du Pape François, en revanche, nous fait comprendre que l’Église est engagée dans les questions de protection de l’environnement, non pas par une sorte de mode “verte” à suivre à tout prix en ces temps d’environnementalisme à tout prix, mais pour récupérer, en leur sein, ces actions communautaires nécessaires qui peuvent générer de la cohésion, être propices au bien-être dans les communautés dans lesquelles elles sont mises en œuvre, et récupérer ces actions de soin et d’attention qui ne peuvent être qu’en faveur de la vie.


[1] Le discours dans son intégralité est ici : http://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2024/january/documents/20240120-asmel.html.

[2] Disponible sur : www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si.html. Au point 78, nous lisons : « Le retour à la nature ne peut se faire au détriment de la liberté et de la responsabilité de l’être humain, qui fait partie du monde avec pour tâche de cultiver ses propres capacités pour le protéger et développer son potentiel. »

[3]  Rapport 2018 des Nations unies sur l’extrême pauvreté aux États-Unis. Ce rapport fait état de 40 millions d’Américains vivant dans la pauvreté.

[4] www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2023/01/Report-OXFAM_La-disuguaglianza-non-conosce-crisi_final.pdf, p. 4.

[5] Ib., p. 4.

[6] Ib., p. 9.

[7] Publié en France par les Éditions du Seuil et réimprimé en Italie par Bompiani en 2016. Thomas Piketty est directeur d’études à l’École des hautes études en sciences sociales et professeur à l’École d’économie de Paris.

[8] Stiglitz a travaillé à la Banque mondiale de 1997 à 2000. Il a démissionné en raison de désaccords avec la manière dont les institutions économiques internationales (Banque mondiale, Fonds monétaire international et Organisation mondiale du commerce) traitaient les questions cruciales liées à la mondialisation. Dans son livre “Globalisation and its Opponents”, il explique en détail les raisons de ce désaccord, donnant ainsi du crédit aux accusations portées contre ces institutions par le mouvement “no-global” et un certain nombre de pays du monde sous-développé.

[9] Paragraphe IX du livre susmentionné.

[10] La liste des principales associations humanitaires bénévoles est disponible à l’adresse suivante : www.papafrancesco.net/elenco-delle-principali-associazioni-volonariato-sociale-umanitario/.

La liste complète est disponible ici : https://italianonprofit.it/.

[11] L’Italie occupe la 50ème place en termes de niveau de bonheur, suivie par la Grèce. C’est derrière le Nicaragua et l’Ouzbékistan. Le dossier a été réalisé par le Sustainable Development Solutions Network.

Source : http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/03/16/classifica-felicita-2016-litalia-e-50-al-mondo-dietro-nicaragua-e-uzbekistan/2553817/.

[12] Données de l’OMS. Pour en savoir plus:www.agensir.it/quotidiano/2019/6/4/inquinamento-ogni-anno-80mila-morti-per-lo-smog-costa-mins-ambiente-vogliamo-fare-da-battistrada-anche-per-i-paesi-europei-in-procedura-dinfrazione/

[13] Voir https://openmigration.org/analisi/migranti-e-cambiamenti-climatici-chi-migra-perche-e-come-intervenire-per-porvi-rimedio/

[14] Le rapport Vital Sings, publié en 2018 par l’agence fédérale de contrôle et de prévention des maladies, les Centers for Disease Control and Prevention (CDC), montre que 45 000 personnes ont mis fin à leurs jours aux États-Unis en 2016, et que le taux de suicide a augmenté de 30 % entre 1999 et 2016, contre 25,4 % au niveau national. Le chiffre le plus important se situe dans les États où les personnes vivent isolées (Vermont (48,6 %), New Hampshire (48,3 %), Utah (46,5 %), Kansas (45 %), Dakota du Sud (44,5 %), Idaho (43,2 %) et Minnesota (40,6 %).  

Voir à cet égard Neuroscettici, de Leonardo Becchetti, Rizzoli 2019.

[15] Voir Martha Craven Nussbaum, Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del Pil, Bologne, il Mulino, 2012, pp. 216, traduction de Rinaldo Falcioni. Édition originale : Creating Capabilities. The Human Development Approach, Cambridge (Mass.)-London, Harvard University Press, 2011.

[16] Publié en Italie par Il Mulino, Bologne 2014.

[17] Traduit en Italie sous le titre La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, Il Mulino, Bologne 2011.

[18] L’intégralité du discours est disponible sur le web.

[19] Infos sur le web site : http://www.symbola.net/manifesto/.

La tyrannie selon Blaise Pascal

Keywords: Bien – Devoir – Force – Injustice – Mérite – Tyrannie.

Abstract: Living at the height of absolutism, Pascal investigates with lucidity and acumen all the characteristics of tyrannical power, delving into the depths of the human heart and its hidden motives. He concludes that the desire for domination affects all men indifferently and has its root in concupiscence and self-love. He defines the characteristics of tyranny in the Thoughts and teaches how to handle it carefully in the Trois discours sur la condition des grands.

Tout l’éclat des grandeurs n’a point de lustre pour les gens qui sont dans les recherches de l’esprit.
Blaise Pascal, Fragment Preuves de Jésus-Christ n°12

Structure et sens d’un aphorisme

Le concept de tyrannie est l’un des plus débattus dans la théorie et la pratique politiques. La tyrannie est également une réalité fréquemment observable dans la vie quotidienne, à un niveau empirique. En tant que telle, elle génère des émotions politiques négatives : irritabilité, dégoût, anxiété, peur, colère.

Pascal explore trois caractéristiques de la tyrannie. La première est celle relative au désir de domination totale. La deuxième est liée à un autre type de désir, celui d’être aimé pour sa force ou craint pour sa beauté. La troisième caractéristique est le refus de reconnaître les mérites d’autrui.

La Tyrannie consiste au désir de domination universel et hors de son ordre.
Diverses chambres de forts, de beaux, de bons esprits, de pieux, dont chacun règne chez soi, non ailleurs. Et quelquefois ils se rencontrent et le fort et le beau se battent sottement à qui sera le maître l’un de l’autre, car leur maîtrise est de divers genre. Ils ne s’entendent pas. Et leur faute est de vouloir régner partout. Rien ne le peut, non pas même la force : elle ne fait rien au royaume des savants, elle n’est maîtresse que des actions extérieures.
Tyrannie.
La tyrannie est de vouloir avoir par une voie ce qu’on ne peut avoir que par une autre. On rend différents devoirs aux différents mérites, devoir d’amour à l’agrément, devoir de crainte à la force, devoir de créance à la science.
On doit rendre ces devoirs-là, on est injuste de les refuser, et injuste d’en demander d’autres.
Ainsi ces discours sont faux et tyranniques : “Je suis beau, donc on doit me craindre ; je suis fort, donc on doit m’aimer ; je suis…” Et c’est de même être faux et tyrannique de dire : “Il n’est pas fort, donc je ne l’estimerai pas. Il n’est pas habile, donc je ne le craindrai pas.” »
Pascal, Pensées, 54.

Quand le philosophe français affirme que la tyrannie est le « désir universel de domination hors de son propre ordre », il la soustrait à la domination purement politique et va jusqu’à affirmer qu’elle est une prédisposition présente en chaque être humain, exactement comme l’est le péché.

Le titre du fragment, “Tyrannie”, est placé au centre. Une ligne de démarcation entre les deux aphorismes. Le premier, celui du début, dans lequel est indiquée une tyrannie universelle, violente ; le second, dans lequel la tyrannie ne revendique pas tout à elle-même, mais seulement une partie : « La tyrannie est de vouloir avoir par une voie ce qu’on ne peut avoir que par une autre. On rend différents devoirs aux différents mérites, devoir d’amour à l’agrément, devoir de crainte à la force, devoir de créance à la science ».

Ce n’est pas le désir qui est condamné, mais le recours aux moyens pour obtenir quelque chose. Dans ce jeu de boîtes chinoises, il arrive que l’encastrement ne se produise pas. « Je suis beau, donc il faut me craindre », et voici la femme fatale rejetée dans ses prétentions. « Je suis fort, donc les gens doivent m’aimer », ce n’est que l’éternelle illusion des puissants.

Grand investigateur du “cœur” humain, le philosophe français en explore les côtés sombres et pervers. Dans la conception de Pascal de la tyrannie, nous voyons une composante fortement narcissique de la personnalité, ce narcissisme qui, comme l’affirme aujourd’hui la philosophe contemporaine Martha Nussbaum, s’il n’est pas correctement surmonté lors du passage de l’enfance à l’âge adulte, constitue un problème pour la démocratie et la coexistence civile. Et il ne fait aucun doute que la tyrannie est un problème à ne pas sous-estimer.

Pascal dit :

La Tyrannie consiste au désir de domination universel et hors de son ordre (92-58).

L’autorité politique n’a aucun droit d’ingérence dans les domaines scientifique, artistique, intellectuel ou religieux (et l’époque pas si lointaine de Covid nous avertit qu’elle n’en a pas non plus dans le domaine de la santé), parce qu’elle prétend étendre son domaine à des domaines qui ne relèvent pas de sa compétence et de sa juridiction. Mais ce faisant, le politique commet un abus de pouvoir.

Il ne faut pas oublier que Pascal, travaillant en milieu janséniste, connaissait bien la leçon de Cornelius Jansenius qui, dans Augustinus (publié à titre posthume en 1640), mettait l’accent sur la conscience des droits de l’individu et de la pensée personnelle contre l’absolutisme de l’autorité, y compris celle du papale.

La tyrannie de la force

Les concepts de justice et de force, que l’on retrouve dans le fragment 135 de l’édition Sellier, sont également liés au concept de tyrannie. [1]. Pascal déclare :

Il est juste que ce qui est juste soit suivi. Il est nécessaire que ce qui est le plus fort soit suivi.
La justice sans la force est impuissante. La force sans la justice est tyrannique.
La justice sans force est contredite parce qu’il y a toujours des méchants. La force sans la justice est accusée.
Il faut donc mettre ensemble la justice et la force, et pour cela faire que ce qui est juste soit fort ou que ce qui est fort soit juste.
La justice est sujette à dispute. La force est très reconnaissable et sans dispute. Ainsi on n’a pu donner la force à la justice, parce que la force a contredit la justice, et a dit qu’elle était injuste, et a dit que c’était elle qui était juste.
Et ainsi ne pouvant faire que ce qui est juste fût fort, on a fait que ce qui est fort fût juste.

Dans ce morceau de Pascal, le philosophe et critique français Louis Marin (1931-1992) voit la légitimation par le droit de la politique par la force et la justice [2]. Mais l’interprétation de Pascal par Marin va encore plus loin, lorsqu’il s’agit de saisir l’opération de démasquage opérée par Pascal qui, derrière le mythe du contrat social et la fiction de l’état de nature qui le précède, révèle quel est le véritable fondement de la Loi : la violence.

Tout ordre politique serait donc un ordre tyrannique, du moins selon l’interprétation de Marin. Le caractère tyrannique de la force se trouverait dans la volonté de tout englober, de régner partout. Marin, à ce propos, écrit :

Deux définitions de la tyrannie [les fragments 91 et 92], c’est-à-dire de la force sans justice qui est la force même : violence absolue. Le fort dans son désir infini d’être le degré absolu de la force – paradoxe infini à la mesure de son désir – est désir de l’homogène, soit le désir de destruction de toute hétérogénéité[3].

La force est donc maîtresse des actions extérieures. En effet, tout système juridique repose sur elle, trouve sa légitimité dans la force.

L’histoire humaine et intellectuelle de Blaise Pascal s’inscrit dans le contexte historique et politique de l’absolutisme et le philosophe, qui en observe attentivement les mécanismes, a la capacité de saisir et de mettre en évidence les côtés sombres de la domination. La domination, par nature, tend à s’étendre et à exclure tous les autres. La domination naît de la force, se comporte de manière arbitraire, ne dialogue pas et n’écoute pas les besoins des autres.

D’une manière générale, selon Pascal, le pouvoir repose sur une double illusion : celle de ceux qui l’exercent et celle de ceux qui le subissent, à savoir la croyance qu’il repose sur les mérites de ceux qui le détiennent et qui sauront le gérer correctement (du moins dans l’espoir des subordonnés).

Pour illustrer la dynamique de tromperie et d’assujettissement sur laquelle se construit la domination, Pascal a recours à un apologue contenu dans les Trois discours sur la condition des grands, prononcés par Pascal à des fins pédagogiques vers 1660 pour le duc de Chevreuse, Charles-Honoré d’Albert (1646-1712), qui était conseiller de Louis XIV et gendre du ministre des finances Colbert. Cet apologue raconte que, à cause d’un banal échange de personne, des hommes attribuent la royauté et les honneurs à la mauvaise personne.

Le faux roi de l’histoire, honoré par des gens qui se trompent sur son identité, est la métaphore de l’essence même du pouvoir : il n’est presque jamais le résultat du mérite, mais plutôt d’un nom de famille, de biens et de richesses hérités, sinon vraiment volés, usurpé et maintenu par caprice, par arbitraire et par commodité. Ce sont les coutumes humaines qui établissent ce qui est bien et ce qui est mal après la naissance d’une institution. Pascal, à ce sujet, écrit :

Ainsi tout le titre par lequel vous possédez votre bien n’est pas un titre de nature, mais d’un établissement humain. Un autre tour d’imagination dans ceux qui ont fait les lois vous auroit rendu pauvre ; et ce n’est que cette rencontre du hasard qui vous a fait naître avec la fantaisie des lois favorables à votre égard, qui vous met en possession de tous ces biens. [4]

Au sein de ce système politique généralement admis, dans lequel les corps sociaux restent rigidement séparés (puissants et sujets), l’espoir de ceux qui subissent le pouvoir est que les puissants exercent leurs prérogatives avec équilibre, pour ne pas sombrer dans la tyrannie. Pascal écrit :

mais n’abusez pas de cette élévation avec insolence, et surtout ne vous méconnaissez pas vous-même en croyant que votre être a quelque chose de plus élevé que celui des autres[5].

Conclusion

La tyrannie est le désir démesuré d’outrepasser les limites de l’autorité, débouchant sur des domaines dans lesquels elle n’a aucune pertinence et, par conséquent, ne fonctionne pas, tout en se faisant des illusions sur ce qu’elle fait. Le tyran croit qu’il brille de sa propre lumière (“Je suis, donc…”).

Au début de sa réflexion sur le sujet, Pascal note qu’il existe différents ordres de réalité : le beau, le bon, le fort, le vrai, qui agissent chacun dans leur domaine et selon leurs modalités propres. Il y a souvent confusion entre ces différents domaines et donc des litiges entre les hommes. Dans le 22e Provincial, il avait déjà affirmé que la force et la vérité sont d’un ordre différent et que, par conséquent, elles ne peuvent rien l’une contre l’autre. De ces premières réflexions émerge la notion centrale de tyrannie comme volonté de déborder l’autorité d’un ordre sur un autre. Dans la deuxième partie de sa réflexion, Pascal étend la notion de tyrannie à tous les domaines de la politique, de la science et même de l’esthétique.

Dans une autre partie des Pensées[6], le philosophe affirme que tout le monde veut dominer sur tout, être les tyrans de tous les autres. Cette libido dominandi, c’est-à-dire ce désir de domination, apporte avec elle la rivalité et la haine. La convoitise et la force sont les origines de toutes nos actions.[7].

Il ne faut pas oublier que dans les Trois discours sur la condition des grands, Pascal répète (troisième discours) que les membres du corps politique “sont pleins de concupiscence”. Le désir de domination est transversal à toutes les conditions sociales, touche tous les êtres humains et est animé par la convoitise[8].

Au contraire, l’imagination égare les gens comme les sages, car elle est « la partie dominante de l’»[9].

Ces forces agissent au sein de groupes humains, qui ont chacun leur propre petit ou grand pouvoir ; ce qui implique une séparation des autres groupes, un manque de compréhension avec les autres. C’est pourquoi Pascal dit au seigneur (deuxième des Discours sur la condition des grands) :

Si vous êtes duc et honnête homme, je rendrai ce que je dois à l’une et à l’autre de ces qualités. Je ne vous refuserai point les cérémonies que mérite votre qualité de duc, ni l’estime que mérite celle d’honnête homme. Mais si vous étiez duc sans être honnête homme, je vous ferais encore justice ; car en vous rendant les devoirs extérieurs que l’ordre des hommes a attachés à votre naissance, je ne manquerais pas d’avoir pour vous le mépris intérieur que mériterait la bassesse de votre esprit.

Dans le troisième des Discours sur la condition des grands, Pascal ajoute :

Mais en connaissant votre condition naturelle, usez des moyens qu’elle vous donne, et ne prétendez pas régner par une autre voie que par celle qui vous fait roi. Ce n’est point votre force et votre puissance naturelle qui vous assujettit toutes ces personnes. Ne prétendez donc point les dominer par la force, ni les traiter avec dureté. Contentez leurs justes désirs ; soulagez leurs nécessités ; mettez votre plaisir à être bienfaisant ; avancez-les autant que vous le pourrez, et vous agirez en vrai roi de concupiscence.

Ainsi, la violence originelle a permis de bâtir des villes et, paradoxalement, l’amour-propre, tant du dominateur que du dominé, assure la pérennité de la société, car nous sommes prêts à renoncer à notre liberté en échange de la sécurité. Et aussi parce que le pouvoir monarchique repose sur la force de l’épée et sur le droit de conquête qui en résulte, comme Bodin l’a déjà reconnu. A cet égard, Gérard Ferreyrolles affirme affirme qu’il est nécessaire que «« la force et l’imagination soient ensemble pour constituer l’État de droit, mélange de consentement et de contrainte, de libertés et de nécessités ».[10]

Pascal est conscient que tout pouvoir est le résultat d’une contingence historique et rappelle au duc de Chevreuse (dernière partie du troisième discours) que la vraie grandeur consiste à ne pas prétendre dominer par la force et la dureté, mais à suivre la charité et la voie de Dieu :

Il y a des gens qui se damnent si sottement, par l’avarice, par la brutalité, par les débauches, par la violence, par les emportements, par les blasphèmes ! Le moyen que je vous ouvre est sans doute plus honnête ; mais en vérité c’est toujours une grande folie que de se damner ; et c’est pourquoi il ne faut pas en demeurer là. Il faut mépriser la concupiscence et son royaume, et aspirer à ce royaume de charité où tous les sujets ne respirent que la charité, et ne désirent que les biens de la charité. D’autres que moi vous en diront le chemin : il me suffit de vous avoir détourné de ces vies brutales où je vois que plusieurs personnes de votre condition se laissent emporter faute de bien connaître l’état véritable de cette condition[11].

NOTES


[1] Blaise Pascal, Pensées, texte de Philippe Sellier, Le livre de poche, Paris 2000.

[2] Louis Marin, Le Portrait du roi, Les Éditions de Minuit, Parigi 1981, p. 23-41.

[3] Louis Marin, Le Portrait du roi, Les Éditions de Minuit, Paris 1981,p. 25.

[4] Ibidem, p. 383.

[5] Ibidem, p. 384.

[6] Pensées, fragment 597, éd. Lafuma.

[7] Pensées, fragment 97, éd. Lafuma.

[8] Les Discours sur la condition des grands sont en ligne dans leur intégralité ici :

https://fr.wikisource.org/wiki/Pascal_%C5%92uvres_compl%C3%A8tes_Hachette,_tome_2/Trois_discours_sur_la_condition_des_grands.

[9] Pensées, fragment 44, éd. Lafuma.

[10] Ferreyrolles G., Pascal et la raison du politique, PUF, Paris 1984, p. 290.

[11] Discorsi sulla condizione dei grandi, III, ultima parte, Éditions Hachette, Paris 1913, p. 19.

Bibliographie

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Gouhier H., Le cœur qui sent les trois dimensions. Analyse d’une pensée de Pascal, in Aa. Vv., La passion de la raison: hommage à Ferdinand Alquié, publié sous la direction de J.-L. Marion avec la collaboration de J. Deprun, PUF, Paris 1983, pp. 203-215.

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  • Opere complete, textes français et latins en face, par M.V. Romeo, Bompiani, Milan 2020 ;
  • Pensées, opuscules et lettres, éd. Ph. Sellier, Classiques Garnier, Paris 2010 ;
  • Pensieri, traduzione, introduction et notes par P. Serini, Giulio Einaudi éditeur, Turin 1962 ;
  • Pensieri, nouvelle édition par Ph. Sellier selon “l’ordre pascalien”, traduction et introduction par B. Papasogli, Città Nuova Editrice, Rome 2013.
  • Trois discours sur la condition des grands, Hachette, Paris 1913, dans Œuvres complètes (1871), tome II (p. 15-19).

Pavlovits T., Le rationalisme de Pascal, Éditions de la Sorbonne, Paris 2007.

Strowski F., Pascal et son temps, troisième partie, Plon, Paris 1923.

Fra’ Pacello da Mercogliano, il giardiniere di Francia

Fra’ Pacello da Mercogliano, dall’Irpinia ad Amboise nella dolce Val di Loira, in Francia. Il geniale monaco irpino fu colui che, insieme a Leonardo da Vinci, portò il Rinascimento in Val di Loira, quell’area di 900 metri quadrati nota come il “giardino di Francia” ed inserita nel patrimonio culturale dell’Unesco dall’anno 2000.

A Mercogliano, suo paese di origine in provincia di Avellino, a fra’ Pacello è dedicata una strada, come è indicato nelle guide che si possono trovare nel castello Gaillard, ad Amboise, la magnifica cittadina dove Leonardo da Vinci visse gli ultimi due anni della sua vita come artista al seguito di re Francesco I e dove il suo corpo è sepolto.

La storia di questo frate è emblematica di quanto l’intelligenza degli irpini abbia dato al mondo, di quante e quali tracce abbiano lasciato di sé nei luoghi dove le loro storie personali li hanno condotti.

Fra’ Pacello fu l’altro genio italiano che, in maniera diversa da Leonardo, come detto, portò la Renaissance in Francia, allestendo giardini magnifici e lavorando per tre sovrani: Carlo VIII, lo sfortunato re che voleva conquistare l’Italia e che era rimasto soggiogato bellezze della nostra penisola, quindi dal successore Luigi XII e poi dal munifico Francesco I, che al “suo bene amato Pacello” donerà il castello di Gaillard, in cambio solo di un bouquet annuale di fiori d’arancio. Si tratta di un dono rarissimo che un re abbia mai fatto ad un suo servitore, ma evidentemente, Catello aveva un fascino particolare, visto che era benvoluto dovunque. Ne parlano infatti come di un monaco “sorridente”, col dono di “far crescere le cose”.

Ancora oggi, allo château Gaillard, più defilato rispetto agli altri due castelli, quello reale appartenuto prima a Carlo VIII e poi a Francesco I, e quello di Clo Luce, dove visse Leonardo da Vinci, esiste una sorta di culto nei confronti di questo monaco venuto dall’Italia per diffondere bellezza ed allietare così l’esistenza dei suoi altolocati padroni. I quadri che lo ritraggono hanno praticamente il posto d’onore nelle stanze dove sono collocati tra quelli di alta nobiltà e teste coronate. L’elegante firma autografa di Pacello è esposta fuori e dentro il castello come se fosse un’opera d’arte. Sulle brochure non si parla che di lui. Nell’ampio giardino di 15 ettari vi è un padiglione a lui dedicato dove lungo tutta la giornata viene proiettato un video sulla sua storia e sulla sua creatività paesaggistica. La sua faccia bonaria e pienotta qui è dipinta sulle piastrelle del pavimento.

Pacello da Mercogliano, il cui vero nome era Catello Mazzarotta (o Mazzaretta), è stato il più grande giardiniere d’Europa durante il XV secolo. Basti solo sapere che ai suoi tempi era chiamato il «Leonardo dei giardini». Nasce a Mercogliano nel 1453 o 1455 e muore nel 1534. Della sua formazione gli storici affermano di non saperne molto, ma si può supporre che egli abbia appreso l’arte di coltivare le piante e curare i giardini presso famiglia monacale che a Mercogliano ha radici plurisecolari. La sua formazione si sviluppa, quindi, all’interno di un contesto favoloso (la cittadina, non a caso, è nota come “il gioiello del Partenio”) unito alla sapienza dei religiosi, che all’interno dei conventi hanno da sempre praticato l’arte della cucina e quella medicamentosa a base di erbe.

Il geniale Pacello è colui che per la prima volta in Francia acclimata delle arance allo château Gaillard. Inoltre crea la prugna Regina Claudia, le cassette per la coltivazione delle arance, la limonaia, la coltura in serra e la prospettiva assiale dei giardini.

Nel Gaillard oggi ci sono 160 alberi di arance e limoni, usciti da 60 varietà insolite.

Fra’ Pacello maneggia anche lavanda, alloro, timo, agrifogli, e li fa crescere copiosi.

Come detto, fu il re Carlo VIII a portarlo con sé in Francia, insieme ad una ventina di altri artisti italiani. Il giovane sovrano (aveva solo 23 anni), sceso in Italia per conquistarla, era rimasto incantato dai giardini di Poggio Reale curati dallo stesso Pacello e di proprietà del re Ferdinando d’Aragona. Alla fine del Quattrocento, questo piccolo castello dotato di quindici ettari di terreno nel cuore di Amboise era un miracolo, e re Carlo VIII, parlando della sua felicissima posizione, diceva: «L’inverno osa appena avventurarsi allo Château Gaillard».

Da precisare che qui tutto parla del Rinascimento italiano, anche il mobilio del castello in questione.

Pacello non sarà solo allo Château Gaillard, ma si occuperà anche dei castelli di Blois e di Gaillon. Nel 1503 sarà anche canonico della cattedrale di Saint-Sauver di Blois.

Tornando allo Château Gaillard, la sua fama è altresì legata al fatto che nel 1559, dopo sfarzose nozze celebrate a Notre Dame de Paris, Maria Stuarda (la sfortunata regina di Scozia che verrà imprigionata e poi decapitata sotto il regno di Elisabetta I nel quadro delle lotte tra cattolici e protestanti) ed il suo primo marito Francesco II vi passarono una luna di miele che durò tre settimane. Il castello, all’epoca, apparteneva allo zio di lei, il cardinale di Guisa.

La vita e l’opera di Pacello, arrivato ad Amboise a poco più di quarant’anni e rimastovi fino alla morte, avvenuta all’età di 87 anni a Blois, si intreccia così con quella di grandi avvenimenti storici sul suolo francese.

La riapertura dello Château Gaillard nel 2014, dopo un lungo periodo di abbandono ed a seguito dell’acquisto di privati, permette oggi al grande pubblico di conoscere questa bella storia, emblema di una civiltà dai tratti luminosi.

La gratitudine per Pacello è tale che all’interno del castello potete trovare il “comptoir des agrumes Mercoliano”. Il nome del paese irpino è, chiaramente, francesizzato, così come quello del frate. Nei documenti che lo riguardano, infatti, potete trovare scritto “Pacello de Marcolliano” o “Mercoliano”.

Il lavoro non gli mancava di certo nel Regno di Napoli, dove creava “paradisi in terra” (come disse anche Carlo VIII), ma poi abbracciò con fede il nuovo cammino che la Provvidenza gli indicava ed in Francia creò giardini di delizie, divenendo protagonista indiscusso del Rinascimento d’olpralpe, a cui apportò il gusto italiano.

Oggi su Pacello da Mercogliano c’è una copiosa letteratura scientifica, soprattutto estera, soprattutto francese, oltre ad alcune opere in lingua italiana.

Keywords: Pacello, Amboise, Mercogliano, giardini, Renaissance

Qui qualche info sul castello Gaillard:

www.it.bloischambord.com/esplorare/i-castelli/tenuta-reale-del-castello-gaillard#:~:text=Ubicata%20nel%20cuore%20della%20citt%C3%A0,dopo%205%20secoli%20d’oblio.

Bibliografia

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BENOCCI CARLA, A ciascuno il suo paradiso. I giardini dei cappuccini, dei minimi, dei gesuiti, degli oratoriani, dei camaldolesi e dei certosini in età moderna, Istituto Storico dei Cappuccini, Roma 2020.

CARTIER ETIENNE, Essais historiques sur la ville d’Amboise et son château, Poitiers 1842.

Catalogue analytique de ses archives, contenant une collection de manuscrits, chartes et documens originaux, concernant l’histoire generale de France (etc.), 1838, pag. 179.

CLOULAS IVAN, Charles VIII et le mirage italien, Albin Michel, 2010, pp. 172, 234 e 243.

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DE LA SAUSSAYE L. Le chateau de Chambord, Aubry, Paris 1865, pag. 37.

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Gardens of Renaissance Europe and the Islamic Empires. Encounters and Confluences, Mohammad Gharipour, Penn State University Press 2017.

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Mélanges d’archéologie et d’histoire, Volume 14, 1894, pag. 630

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ZOPPI MARIELLA, History of the European garden, Alinea, Firenze 2009, pp. 120 e 134.

“Nous crachons sur Hegel” de Carla Lonzi traduit pour la première fois en France

Figure emblématique du féminisme italien, Carla Lonzi (Florence, 1931 – Milan, 1982) est très appréciée en France. Dans ce pays, les universités ne cessent de lui consacrer des séminaires et des journées d’étude.

Carla Lonzi a commencé par être critique d’art. En 1968, lors d’un voyage aux États-Unis, elle découvre les groupes féministes d’autoconscience et reconnaît leur immense importance politique. De retour en Italie, à l’âge de 37 ans, elle abandonne une carrière prometteuse dans le monde de l’art et fonde avec d’autres femmes la Rivolta femminile, un groupe exclusivement composé de femmes féministes. Nous sommes en 1970, à Rome, et à ses côtés dans cette aventure, Carla Accardi et Elvira Banotti.

 Les livres de Carla Lonzi, toujours très actuels, discutés et étudiés aujourd’hui, sont pourtant difficiles à trouver. Nombre de ses textes ont été traduits en anglais, en allemand et en espagnol, mais il y a eu plusieurs éditions pirates, ainsi que des extrapolations de certains de ses écrits publiées à très petits tirages et rapidement épuisées.

 Aujourd’hui, en France précisément, la maison d’édition “Nous” (dont le catalogue est rempli de grands noms de la littérature italienne) propose pour la première fois une traduction du livre Sputiamo su Hegel, livre culte du féminisme italien, qui concentre en six textes la pensée féministe de Carla Lonzi.

 Il s’agit d’une opération éditoriale ambitieuse pour un essai qui fait date dans l’histoire du féminisme radical. Les traductrices de l’ouvrage sont Muriel Comber et Patrizia Atzei, auxquelles le magazine français Trou Noir consacre une longue interview ce mois-ci.

 Muriel Comber, dit : « À cette époque, il y avait dans le Parti Communiste Italien des groupes féministes, mais ils étaient mixtes. Cela conduisait souvent à des situations où les hommes parlaient pour les femmes. C’est avec ça aussi qu’elle voulait rompre. Les femmes devaient s’emparer de la parole et de l’expression, pour dire avec leurs mots ce qu’elles vivaient et d’abord se le dire entre elles. Pour Carla Lonzi, il s’agit d’un processus psychique qui n’est pas individuel. Intervient là une notion importante pour elle qui est celle de résonance. Ce qui se passe dans le groupe d’autoconscience, c’est qu’une parole va résonner. Une expérience vécue par une femme, et donc un psychisme, va résonner avec un autre psychisme. Et ce processus a un effet de conversion subjective très fort. Pour elle, c’est l’outil fondamental de déconstruction de la culture patriarcale hégémonique ».

 Patrizia Atzei, parlant du livre de Lonzi, Autoritratto, déclare : « Elle était déjà rebelle en effet. Autoportrait date de 1969 et précède de peu sa rencontre avec le féminisme. Il s’agit d’un ensemble d’entretiens avec des artistes, assez connus à l’époque, dans lesquels elle déjoue en acte son rôle de critique d’art. Elle laisse parler les artistes, elle conteste la place du critique dans le monde de l’art… C’est très touchant parce que ce livre est le point culminant de sa carrière de critique d’art et le moment où elle l’abandonne. Parce que pour elle le monde de l’art est incompatible avec le féminisme. Une des singularités de son féminisme réside dans une certaine confiance dans les mots, dans l’écriture, dans les livres. Mais le féminisme c’est quelque chose que l’on fait, que l’on fait dans la vie. Sans théorie préalable, sans « ligne », sans mots d’ordre. Et cela redéfinit aussi ce que c’est que de faire de la politique à une époque où le marxisme était hégémonique en Italie, y compris dans la culture, dans la littérature, dans la philosophie et dans une certaine manière d’être féministe. Là encore, elle est en décalage avec son époque, avec ce qui se pratique autour d’elle. En résulte un positionnement très singulier vis-à-vis du militantisme, y compris féministe.

 La question de l’authenticité est en effet centrale chez Carla Lonzi, une manière qu’elle a eu d’expliquer le passage du monde de l’art au féminisme réside dans le noyau de créativité qu’elle pensait trouver chez les artistes. Mais en fréquentant le monde de l’art, elle s’est rendu compte que les artistes n’étaient pas libres, que leur validation était liée à une norme culturelle, à quelque chose d’extrêmement codifié, et que sans cette validation, ils n’étaient pas en mesure de porter leurs œuvres. Sa recherche de l’authenticité s’est donc déplacée des artistes aux femmes. Sa rupture radicale avec le monde de l’art est très intéressante, d’autant plus que depuis toujours et d’une manière particulière récemment, Carla Lonzi a été « récupérée » par le monde de l’art. Elle intéresse beaucoup les femmes qui ont une pratique artistique et qui sont féministes, mais pour elle il s’agit de deux mondes irréconciliables ».

 L’interview souligne que le féminisme de Lonzi est sans compromis, mais qu’en même temps, elle ne veut pas se réaliser aux dépens des hommes. Le titre de son livre Spit on Hegel signifie que la révolution marxiste, théorisée par la gauche hégélienne, résoudra les questions soulevées par le féminisme. Lonzi, en revanche, est convaincue que la révolution féministe est antérieure à toute autre révolution.

 Comber ajoute : « À l’occasion d’une présentation du livre à Paris, nous avons fait la connaissance d’une metteuse en scène italienne qui a collecté des témoignages de femmes ayant connu Carla Lonzi. L’une d’elles évoque les réunions de femmes dans l’appartement de Lonzi, sa présence lumineuse et sa capacité à inviter chacune à une parole vraie. J’ai trouvé belle cette évocation de l’écoute, du geste qui consiste à chercher ce qui relie, à tirer un fil conducteur comme lorsque l’on élabore de la pensée. Pour recueillir le précieux des singularités qui sont là ».

Le journal de Nina Lugovskaya 1932-1937

En 1933, alors que la dictature stalinienne connaît sa période la plus sombre et la plus féroce, tout en se préoccupant de diffuser à l’étranger l’image d’une Russie florissante et heureuse, une jeune Russe de quinze ans, Nina Lugovskaya, commence à écrire son journal. Il en ressort une image totalement différente de cet immense pays dans ces années-là et de ce que vit sa capitale, Moscou. Dans cette ville, les perquisitions de police sont quotidiennes, les gens meurent littéralement de faim et il est interdit de prononcer des paroles dissidentes à l’encontre du régime.

Le journal est une exploration des émotions privées et publiques de la jeune fille, car, comme le dit la philosophe américaine Martha Nussbaum, qui s’est toujours intéressée aux “émotions politiques”, « les émotions des gens réagissent aux institutions dans lesquelles ils vivent »1.

Nina est une jeune moscovite très intelligente et brillante, fragile et émotive. Elle souffre beaucoup d’un léger strabisme qui lui donne l’impression d’être monstrueuse et entrave ses relations avec les autres. Son regard extrêmement lucide et son sens très élevé de l’honnêteté l’amènent à analyser avec une clarté et une précision extraordinaires le monde sombre et étouffant dans lequel elle se trouve plongée et sa vie intérieure, dont elle enregistre les nombreux moments d’abattement, de colère, de déception, d’amertume et de dépression dans un effort presque cruel. Son style est étonnamment mature, et les passages les plus réussis sont peut-être ceux où la veine littéraire de la jeune femme s’exprime dans les descriptions de paysages, de saisons et d’atmosphères, si vivantes qu’on a l’impression de les voir.

Nina observe avec curiosité la vie de ses deux sœurs, Lyalya et Zhenya, qu’elle juge beaucoup plus intéressante que la sienne. Elle aime en secret, nourrit l’ambition de devenir écrivaine et souffre beaucoup de l’absence de son père, qu’elle voit rarement en secret, car il est en exil pour des raisons politiques, recherché et arrêté à plusieurs reprises par la police russe. Elle est une grande lectrice de grands romans russes et aime aller au théâtre.

La découverte de ce journal intime est une sorte de “miracle archivistique”. Dans les années 1990, il a été découvert presque par hasard dans les archives du KGB. Il a été trouvé par une historienne de l’association Memorial de Moscou, Irina Osipova, qui rassemblait des preuves sur la répression politique et les prisonniers dans les prisons staliniennes.

Comme Anne Frank en Allemagne, Nina Lugovskaya est un témoin involontaire de l’histoire et, comme Anne, Nina n’a rien à se reprocher. Certes, la situation vécue par Anne Frank est plus désespérée, car comme le souligne l’écrivaine Ljudmila Ulickaja, Anne « est déjà prise au piège, déjà condamnée, et la force de son journal réside dans le fait que nous, lecteurs, le comprenons, même si elle n’a pas encore perdu l’espoir de survivre »2.

Nina vit avec malaise le manque de son père – “un ennemi du peuple”, qui marquera son destin –, la lutte pour faire vivre la famille de sa mère, éducatrice de profession, et surtout le sentiment d’oppression qu’elle éprouve à l’école, où tout l’ennuie et où elle se sent étrangère. Le journal devient alors le seul moyen de se défouler et son seul confident. Dans son journal, Nina, qui souffrait de dépression et se sentait “monstrueuse” à cause d’un léger strabisme, corrigé par la suite par une opération chirurgicale, confie ses fantasmes suicidaires, alternant avec des moments où elle réaffirme sa volonté de vivre.

La vie m’a regardé en face avec des yeux peu joyeux, exorbités. Elle est avare et dépourvue de joie. La maman est épuisée, malade et toujours occupée. Nous n’avons pas d’argent, il y a de la misère. Mon monde intérieur, mes idéaux sont encore plus misérables. A l’école, je suis prise dans un tourbillon et je ne pense pas, mais à la maison… la monotonie et l’inactivité portent avec elles des pensées sombres qui me tourmentent sans relâche. Et je n’ai aucun but. Tout est désagréable et odieux. Je veux vivre, je veux m’amuser sans trop penser. Les livres ne me passionnent plus. Je lis un peu, et à nouveau… je commence à réfléchir et à me sentir malheureuse. Peut-être que pour sortir de ma misère, un jour, qui sait quand, je me mettrai à boire…3

Le journal est plein de passages où Nina se dévalorise, déclare son malaise existentiel, se qualifie de laide et fait preuve de très peu d’estime de soi.

Par exemple, elle écrit :

Mais qu’est-ce que ce destin sournois ? Il ne m’a rien donné : ni physique, ni capacité, ni talent, mais l’amour-propre, l’orgueil et l’ambition aussi. C’est de la cruauté. De plus, je suis une femme de la tête aux pieds. Priver une femme de sa beauté est une moquerie…4

Ses premiers flirts, son intérêt pour les garçons sont décrits en détail. Son besoin d’amour est très fort :

J’ai envie d’un ami et, je le reconnais, d’un homme-ami. Je veux simplement de l’amour, ne pas être éternellement seule.

D’une manière ou d’une autre, le vide de ma vie et je me marierai probablement bientôt, en me moquant de tous les aspects désagréables qu’une femme doit affronter pour avoir des enfants, pour avoir la possibilité d’aimer quelqu’un, de caresser quelqu’un5.

Je veux l’amour, je veux m’annuler dans ce sentiment, dissoudre mon moi, m’oublier moi-même, cesser d’analyser pour percevoir seulement l’amour et la sérénité bienheureuse. Mais l’amour n’est pas là. Une obscure inquiétude me tourmente qui devient parfois si envahissante.6

Il y a une très forte répulsion pour l’école, que Nina considère comme un environnement ennuyeux, dans lequel il n’y a pas de place pour une pensée critique et où le conformisme est omniprésent. Chaque fois qu’elle le peut, la jeune fille se soustrait à des jours de cours. Et surprend aussi le jugement tranchant sur ses professeurs :

Pourquoi cette singulière lutte et inimitié entre l’administration scolaire et les étudiants ? Pourquoi harceler les professeurs en leur faisant des blagues de mauvais goût, pourquoi ne pas vivre ensemble amicalement, en nous aidant les uns les autres ?

Il faut abattre quelque chose, cette barrière qui sépare les élèves des enseignants : le problème doit être posé d’une autre manière. Les professeurs interdisent toujours quelque chose aux étudiants, ils font des choses désagréables, des remarques, et c’est exaspérant. Il n’y a pas les conditions pour développer les côtés positifs de leur caractère. Leurs pires instincts prévalent, qui les privent de toute joie dans la relation spirituelle. Il n’est pas étrange que le monde soit fondé sur l’inimitié, ou c’est une loi de la nature.7

Parmi les pages les plus surprenantes du journal figurent celles où Nina décrit avec précision les établissements commerciaux réservés aux élites soviétiques (pp. 82-83) et celles où elle parle de la famine en Ukraine :

Il se passe des choses étranges en Russie. Faim, cannibalisme… Les gens qui viennent de la province racontent beaucoup de faits. Ils disent qu’ils n’ont pas le temps de ramasser les cadavres dans les rues, que les villes de province sont pleines de affamés, de paysans déchirés. Partout des vols horribles et du banditisme.

Et l’Ukraine ? La fertile et vaste Ukraine… Qu’est-elle devenue ? Personne ne la reconnaît plus. Elle est steppe morte et silencieuse. On ne voit plus le grand seigle doré ni le blé soyeux, leurs épis pensants ne se balancent plus au vent. La steppe est couverte de mauvaises herbes. Il n’y a plus de grands et joyeux villages ukrainiens ni de petites maisons blanches, on n’entend plus les chansons ukrainiennes retentissantes. Ici et là, on aperçoit des villages morts, vides. Tous les hommes se sont enfuis.8

Il y a de l’amertume face au triste sort qui a été réservé au peuple russe :

Non, les Russes ne peuvent pas gagner la liberté et ils ne peuvent pas non plus vivre dans la liberté. Depuis l’époque où les Slaves ont appelé les Varices pour les gouverner, ils ont été sous le pouvoir de quelqu’un. Et ils seront toujours sous un joug. On ne peut qu’être d’accord avec Tourgueniev lorsqu’il dit que « le peuple russe a moins besoin de la liberté que de toute autre chose ». Il n’en a pas besoin parce qu’il n’est pas capable de la défendre.9

La troisième et dernière partie du journal de Nina est consacrée presque exclusivement à ses affaires personnelles. La jeune fille arrête d’écrire sur la politique et les événements publics et déclare qu’elle ne veut regarder que vers l’avant. Ces pages sont traversées par un sombre présage, qui va bientôt se réaliser. Le 4 janvier 1937, la police secrète fait une descente dans l’appartement de Lugovskoy et saisit le journal de Nina. Pour elle, pour ses sœurs et pour sa mère, les portes du goulag s’ouvrent.

Les policiers soviétiques ont souligné les différentes parties du journal dans lesquelles Nina parle des conditions de vie désespérées du peuple russe et de sa haine personnelle pour les bolcheviks. Ces passages seront plus tard utilisés par le pouvoir stalinien pour arrêter Nina, ses deux sœurs et sa mère et les condamner à cinq ans d’emprisonnement et de travaux forcés dans les camps de prisonniers de la Kolyma, dans l’Arctique soviétique. En 1942, elle est libérée mais contrainte à un nouvel exil de sept ans dans une région reculée de la Kolyma. C’est en 1942, à Magadan, en Sibérie, qu’elle rencontre son futur mari, Viktor Templin, un peintre condamné à quatre ans de travaux forcés pour les “tendances modernistes” de son art. Elle commence à peindre et tente de s’intégrer dans la société soviétique.

La mère et les sœurs de Nina ont survécu à Kolyma. Sa mère Ljubov meurt en 1949 et son père Sergei en 1950.

En 1959, Nina s’installe avec son mari Viktor à Vladimir, où elle restera jusqu’à sa mort.

En 1977, elle devient membre de la prestigieuse Union des artistes, expose ses œuvres dans diverses expositions et travaille comme décoratrice dans différents théâtres. À Magadan, elle rencontre le peintre Vasili Shukhayev, dont elle se considère comme l’élève.

Elle travaille comme décoratrice avec son mari Viktor dans divers théâtres de province et le couple connaît également un certain succès.

Nina nous a parlé de son adolescence tourmentée, cruellement interrompue dans sa transition vers l’âge adulte. Elle nous a parlé de rêves brisés et d’un désir de normalité brisé par la brutalité du pouvoir. Nina ne pourra pas aller à l’université comme elle l’aurait souhaité. Nous savons très peu de choses de son emprisonnement, si ce n’est que, étant donné son très jeune âge, toutes les autres détenues s’occupaient d’elle dans la prison de Butyrskaïa (la “Butyrka”) à Moscou, où son père avait déjà été emprisonné10. Soumise à des tortures cruelles et prolongées, y compris la privation de sommeil, Nina a avoué des crimes qu’elle n’avait jamais commis et a signé sa propre condamnation.

Après le goulag, elle a vécu près d’un demi-siècle, renonçant à l’écriture poursuivant son travail d’artiste. Ses amis à Vladimir ne connaissaient rien de son passé et se souvenaient d’elle comme d’une personne réservée et gentille.

Nina meurt en 1993 à l’âge de 74 ans, après avoir assisté à l’effondrement de l’Union soviétique deux ans plus tôt. Elle est enterrée dans le cimetière d’Ulybyshevo à côté de son mari Viktor.

En 2008, ses journaux intimes ont été exposés au musée de la littérature de Moscou dans le cadre d’une exposition intitulée “Les trois vies de Nina Lugovskaya” : d’abord écolière, puis déportée et enfin, après les années de camp de concentration, artiste.

Keywords: Russie, Stalin, journal, Lugovskaya, camps de concentration

NOTES

  1. M. Nussbaum, La monarchia della paura, Il Mulino, Bologne 2020, p. 143. la traduction de l’italien au français, comme les autres qui suivent, sont à moi.
  2. Cité dans Elena Kostioukovitch, Un ritrovamento archeologico: la voce adolescente di denuncia, in Nina Lugovskaja, Il diario di Nina, traduit et annoté par Elena Dundovich, édité et préfacé par Elena Kostioukovitch, Frassinelli, Milan 2006, p. 478.
  3. Il diario di Nina, Frassinelli, Milan 2005, p. 168.
  4. Il diario di Nina, p. 284.
  5. Il diario di Nina, pp. 293-294.
  6. Il diario di Nina, p. 296.
  7. Il diario di Nina, pp. 283-284.
  8. Il diario di Nina, pp. 85-86.
  9. Il diario di Nina, p. 67.
  10. Le témoignage touchant est celui d’Evgenija Ginzburg dans Krutoj maršrut (Voyage dans le vertige).

Pour aller plus loin

I Want to Live: The Diary of a Young Girl in Stalin’s Russia, Nina Lugovskaja. Houghton Mifflin Harcourt, 2006.

Il diario di Nina, Nina Lugovskaja, Edizioni Frassinelli, Milano 2004

www.lrb.co.uk/the-paper/v26/n09/sheila-fitzpatrick/pessimism-and-boys

https://1972.substack.com/p/nel-diario-di-nina-lugovskaya-lesatta

www.publishersweekly.com/9780618605750

www.theguardian.com/books/2006/aug/06/historybooks.features

www.unive.it/pag/fileadmin/user_upload/dipartimenti/DSLCC/documenti/DEP/numeri/n22/05_22__maggio2013-Cicognini.pdf